Mai prima d’ora, nemmeno quando ero corrispondente di guerra, mi sono imbattuto nel racconto di una fuga più sorprendente di quella di Irina Dashova.

Russa, 23 anni, blogger. Ci siamo conosciuti a 1.308 chilometri dal Polo nord, a Spitsbergen: al Bartents Pub (che porta il nome del tragico eroe del mare Willem Barents) lei ha ordinato quattro cocktail arcobaleno, e mia figlia e io abbiamo brindato alla salute di Irina e di Lara, la sua fidanzata.

Quella sera d’estate, mentre con una mano continuava a scostarsi dal viso i lunghi capelli, Irina ci raccontò della sua fuga.

A colpirmi non furono le peripezie del viaggio: nessun trasporto chiusa nel cassone di un camion, niente privazioni né danni fisici. Aveva preso un volo di linea dell’Aeroflot diretto a Spitsbergen. Però era partita in fretta e furia, con l’intenzione di raggiungere l’insediamento russo di Barentsburg, molto al di sopra del Circolo polare artico. Era successo che Irina aveva condiviso un post su Facebook – «Putin in galera, Navalny libero» – aggiungendo un commento sulla zanzara russa sopravvissuta per un pelo all’avvelenamento con il gas nervino Novichok. All’inizio del 2021 Aleksej Navalny era stato condannato con un processo farsa e spedito in un campo di lavoro a est di Mosca perché, mentre era in ospedale attaccato a una flebo, non aveva rispettato i termini di presentazione obbligatoria a un processo.

Il sito di informazione nel quale Irina postava i messaggi del suo blog era stato oscurato, il suo caporedattore arrestato e portato via in un furgone. Irina aveva cercato di lasciare immediatamente il paese, ma non aveva un visto né un vaccino valido. E così la sua scelta era caduta sull’insediamento minerario russo di Barentsburg (350 anime) a 78.04 gradi di latitudine nord. Lara, la fidanzata di Irina, lavorava nell’ufficio postale locale, il punto più settentrionale da cui i turisti spedivano le loro cartoline.

Lara fece un brindisi «al territorio norvegese in cui ci troviamo». Per quanto Barentsburg sia un villaggio minerario totalmente russo, amministrato dall’impresa statale Arktikugol (Carbone artico), secondo il Trattato delle Svalbard del 1921 questo arcipelago praticamente disabitato appartiene alla Norvegia.

«Quando Irina cominciò ad avere dei problemi, io ero appena stata licenziata in tronco», raccontò Lara. «E sai perché? Perché anche noi guide della Arktikugol ci eravamo espresse a difesa di Navalny».

Lara era fuggita nell’insediamento norvegese di Longyearbyen (circa duemila anime) due ghiacciai più in là, in un’insenatura dello stesso fiordo. Senza lavoro, senza visto.

«Ma d’estate a Barentsburg hanno sempre bisogno di guide che parlano inglese», disse Irina. Nonostante i suoi precedenti, era stata assunta al posto di Lara. Tipico dei russi, non fare controlli.

«Skål».

«Na zdorov’e».

Riserva senza recinti

Questo per quanto riguarda la prima parte della fuga di Irina. Della seconda parte siamo stati testimoni io e mia figlia durante la nostra escursione nell’Icefjord con la Polar Girl, robusta motonave rossa e bianca come la bandiera norvegese. Abbiamo costeggiato pareti di ghiaccio, con i dorsi ondeggianti dei beluga alla nostra dritta, per poi attraccare al molo del carbone di Barentsburg. In cima alla passerella Elisa, la nostra guida norvegese, ci consegna al suo collega russo Pëtr – berretto grigio, barba, occhiali, gilet giallo sopra il giaccone imbottito.

«Quel molo laggiù, quello dietro al quale viene immagazzinato il carbone lo hanno costruito gli olandesi», dissi cercando di rompere il ghiaccio e attaccare bottone con Pëtr. Non si sa se per ottusità o per saggia lungimiranza, nel 1932 gli olandesi avevano venduto Barentsburg, miniera e villaggio, alla Arktikugol.

«Niet», rispose Pëtr. «Tutto quello che vedete qui è russo».

Ho capito il suo problema: questo giovanotto aveva un impiego statale e aveva intenzione di tenerselo. D’accordo, allora partiamo dal presupposto tutto ciò che rientra nel nostro campo visivo sia «russo»…

Cosa stavamo dicendo?

Renne. Solipedi che ruminano placidamente. Ogni tanto alzano il loro sguardo antico, sostenendo con rassegnazione le loro enormi corna. Ci sembrava di essere in una riserva naturale, ma senza i recinti. Le renne di Barentsburg pascolavano fra case di legno segnate dalle intemperie, ruderi dell’epoca sovietica. Solo una aveva un tetto nuovo di tegole rosse, per limitare i danni causati dalla neve e dall’acqua di disgelo. Nell’insieme le case scrostate di Barentsburg conservavano le sembianze di un centro abitato.

Erano renne domestiche? Addomesticate, di quelle che a Natale si attaccano alla slitta? «Niet», disse Pëtr. «Sanno che dentro al centro abitato è proibito cacciarle». Me ne resi conto solo più tardi, all’improvviso, mentre sorseggiavamo i nostri cocktail con Irina e Lara: questi ungulati erbivori, eleganti e pacifici in questo villaggio minerario sono al sicuro. Hanno trovato rifugio in un ammasso di case su questa costa inospitale perché altrove sarebbero fuori legge, facile preda dei cacciatori.

Queste renne sono rifugiate.

Si potrebbe anche dire: le due ragazze russe, Irina e Lara, sono come quelle renne, in cerca di rifugio.

Riscrittura della storia

A metà della salita verso la piazza del villaggio, Pëtr disse qualcosa che mi riportò ai cinque anni in cui ho vissuto a Mosca, dal 1997 alla fine del 2001. Per la precisione: agli anni dell’ascesa di Putin al Cremlino come nuovo zar (o nuovo Stalin, come si sta dimostrando?).

La sua incoronazione alla fine del 1999 coincise con la ripresa della repressione. Per me, come corrispondente, all’inizio cambiò poco, salvo che cominciai a ricevere strane telefonate da presunti colleghi russi che in seguito risultavano sconosciuti alla Izvestija, il quotidiano per cui dicevano di lavorare. Di colpo vennero abolite Ong, sciolte comunità religiose, e gli archivi si chiusero come ostriche. Quest’ultima operazione si rivelò il preludio alla grande riscrittura della storia, con la riabilitazione dei servizi terroristici di stato, il Kgb e il suo successore Fsb.

Pëtr mi indicò una villa di legno con una veranda in rovina: la vecchia abitazione del direttore. «Qui è cresciuta Majja Pliseckaja. Prima ballerina del Bol’šoj.»

La fragile ballerina, insuperata interprete della Morte del cigno? Qui? Andava a scuola nella notte polare che durava da metà novembre a febbraio?

A casa ho la sua autobiografia: Io, Majja Pliseckaja. Mi ricordavo che, prima ballerina assoluta, per anni non poté andare in tournée all’estero per timore che anche lei, come Rudol’f Nureev, con un balzo da cerbiatta fuggisse nel libero occidente.

Ma che da ragazza avesse subito il regime terroristico di Stalin in questo posto dimenticato da Dio, questo per me era una novità. Suo padre fu il primo direttore di Arktikugol, la stessa impresa mineraria che aveva licenziato Lara e assunto – almeno per il momento – Irina.

Nel 1934 Majja, che allora aveva nove anni, assistette nella piazzetta con il busto di Lenin a una cerimonia organizzata da suo padre in onore di Sergej Kirov, pezzo grosso del partito vittima di un attentato. Il compagno Stalin sfruttò la morte di Kirov per dare inizio alle epurazioni degli anni Trenta, tra cui i processi farsa in cui l’accusa inventava le imputazioni più grottesche (e fra queste non avrebbe sfigurato la condanna di Naval’nyj per non aver rispettato i termini di presentazione in tribunale mentre era ricoverato in ospedale per avvelenamento).

Il padre di Majja fu la vittima successiva della macchina delle epurazioni di Stalin, e non fece in tempo ad assistere alla cerimonia per Kirov.

Dal sommario della biografia di Majja:

Capitolo sei – Di nuovo in classe dopo l’arresto di papà

Capitolo sette – Mamma scompare

Suo padre venne giustiziato come spia al soldo di potenze straniere e traditore della patria, sua madre esiliata in Siberia in un gulag, da cui tornò nel 1941, deperita e spezzata.

La nostra guida Pëtr disse di non essere a conoscenza dei dettagli. Ci mostrò i due edifici scolastici, quello vecchio e quello nuovo decorato con orso polare-tricheco-beluga dipinti. A metà della strada principale che attraversa Barentsburg si trova il bar Krasnyj Medved’, «Il panda rosso», in un edificio di assi di legno color sangue di bue, uno dei pochi che potrebbe definirsi piacevole. La specialità locale è un intruglio simile alla vodka, con il 78,04 percento di alcol.

«È una tradizione russa», disse Pëtr, «quella di distillare bevande con una gradazione alcolica che coincide con la latitudine».

«Tre bicchierini e si spegne la luce», disse la nostra guida, per esperienza personale. Non per niente il distillato di Barentsburg si chiama do zavtra, «ci si vede domani».

Pride a Spitsbergen

L’ufficio postale di Barentsburg era un negozio di souvenir sotto mentite spoglie, pieno di bandierine, tazze da caffè e piatti decorativi. La Polar Girl ci attendeva in banchina, partenza prevista dopo un quarto d’ora.

«Nessuna fretta», ci disse l’impiegata in un inglese fluente. «Mi imbarco con voi, e i norvegesi hanno promesso di aspettarmi».

Il tono della sua voce era talmente diverso da quello che ero abituato ad attendermi da un impiegato russo che drizzai subito le orecchie. Più tardi, a poppa, mentre Barentsburg si riduceva a un puntino sulla scia della nave, le rivolsi la parola, e scoprimmo come si chiamava.

Per un po’ Irina si tenne sul vago, voleva sapere dove avevo imparato il russo, e soprattutto perché. Poi raccontò che aveva preso qualche giorno di permesso per incontrare un’amica nell’insediamento norvegese dietro i due ghiacciai. Ah sì, e per partecipare con lei al primo Pride di Spitsbergen.

A nostra volta le raccontammo che avremmo partecipato anche noi e fu così che la sera seguente, nell’insediamento norvegese di Longyearbyen, a cinquantacinque chilometri dalla sfera di influenza russa, ci ritrovammo a brindare con i nostri cocktail arcobaleno. Irina e Lara conoscevano il barman, Volodja. Scoprimmo che anche lui era un russo licenziato dalla Arktikugol, spiaggiato a Spitsbergen.

Dopo la mezzanotte nel giardino d’inverno del ristorante, mentre il sole si rifiutava ostinatamente di tramontare, Irina ci raccontò di quanto temesse la longa manus di Mosca. Dopotutto Putin non dava solo la caccia ai sostenitori di Navalny, ma anche alle giovani donne che baciavano altre giovani donne. Per questo motivo si era imbarcata sulla Polar Girl non solo per un weekend di vacanza e divertimento, ma anche per via del vaccino Moderna. Alla Arktikugol le avevano fatto due dosi di Sputnik, ma quando sarebbe dovuta scappare anche da Spitsbergen avrebbe avuto bisogno di un certificato di vaccinazione valido.

«Al cocktail di vaccini che riceverai presto», dissi a mo’ di brindisi.

«Alla libertà», dicemmo tutti.

Russi con l’Ucraina

Una volta tornati in Olanda, siamo rimasti in contatto con Irina via Instagram. Postava foto di cieli notturni con le strisce verdi dell’aurora boreale, o di due renne in un praticello accanto al busto di Lenin, o di lei e Lara dopo un tuffo nell’acqua ghiacciata del fiordo. Cose così.

Questo fino a una settimana prima dell’invasione russa dell’Ucraina. Poi, all’improvviso, comparve sulla sua cronologia un breve video preso da un’auto. Piove, le spazzole del tergicristallo vanno energicamente avanti e indietro. Sopra l’autostrada appare per un istante la scritta BERLINO.

Il giorno dell’invasione vediamo una foto della Porta di Brandeburgo inondata di luce gialla e azzurra. Con l’hashtag #janiemaltsjoe (io non taccio): «Faccio fatica a concepire che un fanatico assassino possa far scoppiare una guerra “in nome di” 145 milioni di persone. Io sto dalla parte del popolo ucraino. Sono molto, molto addolorata».

Nel primo weekend successivo io sono in piazza Dam ad Amsterdam con un nastro giallo e azzurro, mentre Irina sfila in una Alexanderplatz tappezzata di cartelli. «Per me, come russa, è una strana sensazione prendere parte a una protesta in cui la polizia non ti pesta perché stai gridando “no war”».

Sfogliando la serie di foto allegate mi commuovo. La vedo sottobraccio a Lara. «I russi fianco a fianco con l’Ucraina», c’è scritto su uno dei loro cartelli. Su un altro: «Navi da guerra russe, vaffanculo».

Lo slogan sull’ultimo cartello è di un altro tenore, e non si capisce chi lo stia tenendo. Si vede solo il testo, sullo sfondo fiori primaverili e un caseggiato: «Putin in galera, Navalny libero».

Non è Irina a reggere quel cartello, teme la sete di vendetta di Putin anche da Berlino. Sua madre, quando ha visto il suo primo messaggio con i tergicristallo è scoppiata a piangere per la felicità, euforica di saperla al sicuro. Bisogna evitare di pensare che il servizio di sicurezza moscovita potrebbe andare a prendere lei per il coraggio di sua figlia, la russa Irina che, fuori legge come le renne di Barentsburg, per ora ha trovato rifugio sotto la Porta di Brandeburgo.

(Traduzione di Claudia Cozzi)

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