In un’antica cronaca medievale, il monaco cluniacense Rodolfo il Glabro racconta del sollievo con cui l’occidente salutò l’avvento dell’anno Mille. Grande era stata infatti la paura legata alle innumerevoli teorie che, nel corso dei secoli, avevano collegato quella data alla fine del mondo. Davanti a una simile, miracolosa smentita, davanti alla sopravvivenza del creato, tutta l’Europa, leggiamo, «si ricoprì di un candido manto di chiese». Sorte un po’ ovunque, quelle architetture religiose celebravano lo scampato pericolo della catastrofe. Ebbene, qualcosa di analogo è accaduto anche in questi mesi nel nostro vecchio continente. Ovviamente, ogni epoca festeggia a modo suo. Così, con l’affievolirsi della pandemia, per salutare la salvezza dal virus, l’Italia è stata invasa da allegre costruzioni, proliferate un po’ dovunque ancorché di stampo profano: i cosiddetti “dehors”.

Covid, coprifuoco, distanziamento sociale, areazione. Davanti a un’esistenza che da oltre un anno è stata relegata in una ferrea gabbia, ormai c’è un solo grido, un’unica parola d’ordine: dehors, appunto! Il termine francese significa innanzitutto “fuori”, e sembra invitarci a uscire dalla prigione, dalla reclusione forzata della casa. Tuttavia, inteso come sostantivo, “dehors” ha finito per indicare uno spazio esterno posto davanti a un bar o a un ristorante, e adibito alle consumazioni. Per reagire al lockdown, ogni tessuto urbano si è dunque estroflesso, in modo da scongiurare la vicinanza fra persone chiuse all’interno di ambienti non sufficientemente ventilati. Dopo mesi di segregazione, l’arte della consumazione si è quindi trasferita nelle vie. In una travolgente corsa all’aperto, in un’ansiosa riappropriazione del “plein air”, moltissimi locali hanno invaso le strade, rivendicando una mediterraneità climatica valida ormai anche per ogni valle alpina.

Massiccia intrusività

Ciò ha portato a una evidente modificazione delle città, nel segno di una gioiosa, euforica rinascita degna di quella verificatasi appunto dopo l’anno Mille. Purtroppo, però, il fenomeno ha comportato alcune gravi controindicazioni, poiché il dehors, simile a un gazebo, a una veranda o a un pergolato, richiede cure particolari. Organizzarlo, vuol dire pensare alla sua pavimentazione, all’arredo, alla protezione perimetrale e alla copertura, «per realizzare un’area in cui i clienti siano al riparo da intemperie, in un’atmosfera invitante» (cito da una pubblicità del settore). Basta fare due passi per vedere addirittura balaustrate di acciaio, fortificazioni che molto spesso sbarrano la strada a auto, moto e pedoni. Insomma, di per sé la fioritura di dehors sarebbe apprezzabile, se non fosse per la sua massiccia intrusività, che ci conduce a una inequivocabile deduzione: lungi dall’essere temporanee, tutte queste strutture, costosissime, rimarranno in eterno, proprio come le chiese descritte da Rodolfo.

Ora, un assunto del genere comporta un netto spostamento del discorso, perché una cosa è accogliere un festoso evento transitorio, un’altra, ben diversa, confrontarsi con una definitiva, irreversibile mutazione del tessuto urbano. Da qui due considerazioni, la prima delle quali molto breve: visto che i dehors invadono le strade, qualcuno ha mai pensato al numero di posti-auto irrimediabilmente cancellati? Cosa faccio della macchina, se nel lungo in cui ero solito lasciarla c’è adesso una distesa di tavolini? La domanda non nasconde un invito alla costruzione di parcheggi sotterranei, bensì al semplice uso del buon senso: per risolvere la situazione, bisognerebbe consentire che, da ora in poi, si possa parcheggiare anche laddove finora era vietato, con buona pace delle aree pedonali. La coperta è corta, e da qualche parte si deve pur tirare, sempre che non si voglia scatenare una campagna di multe che vada a rimpinguare le casse dei comuni – a scapito di tutti i cittadini rei di possedere un auto.

La quiete pubblica

E qui arriviamo alla seconda domanda che tocca purtroppo il punto dolente del rapporto tra abitanti e esercizi commerciali. Infatti, molto spesso, i ristoranti all’aperto sono rumorosi. Concentriamoci sul secondo problema, reso peraltro ancora più interessante da una notizia senza precedenti. A Roma gira voce che sia ormai impossibile andare in un cinema del centro storico, a causa del rumore che viene dal vicino dehors, i cui tavolini, per inciso, impedirebbero anche il deflusso degli spettatori dall’uscita di emergenza. Di solito, quando si tratta di frastuono, si pensa a metropoli sovrappopolate come Napoli, Roma, Bologna. Macché! L’altra novità riguarda la comparsa delle stesse difficoltà anche in piccoli comuni.

Lo testimonia una dolente lettera indirizzata da un abitante di Briseghella al suo sindaco, che recita: «Le scrivo da una strada caratteristica del centro storico, Via Gattamarcia, dove due giorni fa ha aperto una nuova vineria. Viene così assassinato, un altro pezzo di quiete pubblica. Via Gattamarcia è un nome buffo: sapesse quante guide e maestre ho sentito, direttamente dalle finestre di casa mia, raccontare ai bambini e ai turisti che il nome veniva dal puzzo dei gatti morti, segno di puro degrado medioevale. E invece, pensi, pare che in realtà qui ci sia stato un ghetto ebraico, anticamente. Lo sapeva? E sa come sono fatti gli antichi ghetti ebraici, a Venezia, a Ferrara, a Padova? Strade strette strette e case alte alte: se cade un cucchiaino puoi sentirlo dall’altro capo della strada. Non è proprio il posto ideale per aprire un locale, non crede? Ci voleva molto a pensarci, prima di fare un danno come questo? Può immaginare, Lei, che cosa significhi non poter stare in casa propria in silenzio?»

Io non ho soluzioni, ma oso avanzare una modesta proposta, per cercare almeno di limitare alcuni danni collaterali provocati da quanto va accadendo intorno a noi. Bene cibo e bevande, ma la musica no, la musica decisamente no. In comunità sempre più simili a formicai, è venuto il momento di prendere atto che la musica, qualsiasi essa sia, rappresenta un corpo contundente, un’autentica arma impropria. Infatti, se quella che scegliamo ci porta in paradiso, quella che subiamo ci sprofonda all’inferno. E allora basta con la musica imposta agli altri, basta con le sevizie arrecate a creature inermi e innocue che chiedono solamente di stare in silenzio, magari per sentire, con le cuffie, la musica che amano.

Non è davvero un caso, d’altra parte, che Kant considerasse quest’arte come l’unica a essere incivile, perché colpevole di trattare il prossimo (nel senso etimologico del termine) contro la sua volontà: «Alla musica è propria quasi una mancanza di urbanità a causa della proprietà che hanno i suoi strumenti di estendere la loro azione sul vicinato, per cui essa si insinua e va a turbare la libertà di quelli che non partecipano all'intrattenimento». Inutile specificare come il filosofo avrebbe giudicato l’uso degli altoparlanti da parte degli attuali musicisti di strada.

Anche senza arrivare al film di Woody Allen, Café Society, dove un vicino che tiene alzato il volume della radio viene ucciso e seppellito nel cemento, credo che sia venuto il momento di sanzionare con maggiore severità il disturbo della quiete pubblica, tanto più frequente oggi, dopo la comprensibile e giustificata proliferazione di tanti dehors, dal Piemonte alla Calabria, da Palermo a Brisighella. Certo, esistono cose più importanti di quelle che ho fin qui esaminato. Ma come possiamo sperare di affrontare in modo soddisfacente l’emergenza, se non siamo in grado di gestire la normalità? Pertanto, facciamo in modo che “dehors” voglia sì dire “fuori”, ma non debba per forza significare “fuori dalla legalità”.

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