L’anno scorso, il giorno del mio compleanno, in via del Corso, nella città in cui sono cresciuto, si è tenuta la National conservatism conference, quella in cui Giorgia Meloni, alla presenza di Viktor Orbán e Marion Maréchal, profetizzò al biblista israeliano Yoram Hazony che il suo libro sulle virtù del nazionalismo avrebbe suscitato grande scandalo in Italia.

Per qualche motivo, i conservatori si aspettano sempre scandalo quando sposano argomenti conservatori. E amaramente si sobbarcano della responsabilità di risultare impopolari, con piglio di sfida, quando confessano le loro popolarissime, arcinote convinzioni. Boh.

Forse si tratta di una variante postrema di quel gioco decostruito così bene da Umberto Eco, Ruth Ben-Ghiat, e altre menti impegnate da mezzo secolo nell’analisi di ciò che oggi chiamiamo populismo: dipingere chi opprime come oppresso, sbeffeggiare il nemico per la sua debolezza e, al contempo, additarlo come potentissima, insormontabile minaccia, da fronteggiare con l’umile onore di un hobbit, di un Davide.

Il futuro maschile della destra

Quest’anno la Conference è tornata negli Stati Uniti, dov’è nata, nel paludoso cuore della Florida in cui si concentrano i più grandi parchi a tema del mondo, da Disney a Harry Potter. Nell’ancora afoso novembre di Orlando, in un hotel gigantesco, la relazione che ha più colpito è stata pronunciata da un personaggio che pare proprio il rassicurante (eppur sinistro) animatronic di uno di quei parchi: un semovente cliché, così generico da sembrare la foto d’archivio, interscambiabile con mille altre diverse e identiche, dell’inesistente uomo medio americano da fattoria (o da filiale bancaria, o da chiesetta di paese); una delle molte facce sullo sfondo di un olio di George Bellows, o il protagonista di una cartolina illustrata da Norman Rockwell.

Tale sbarbatissimo repubblicano del Missouri, con blazer blu e smagliante sorriso d’avvocato, è il senatore Josh Hawley. La faccia, come dicevo, è difficile da ricordare. Ma se avete seguito gli avvenimenti del 6 gennaio scorso, quando il congresso degli Stati Uniti è stato preso d’assalto da sedicenti patrioti capitanati da sciamani e neonazisti, ricorderete il suo slanciato corpo di vincente quarantenne. È lui il politico che, marciando controvento verso il suo ufficio in giacca e cravatta, alzò il pugno per salutare la folla in rivolta poco prima che irrompesse con violenza nel parlamento.

Hawley non rinnega quel saluto, né i sospetti cospirazionisti che ancora nutre sulla validità dell’elezione di Joe Biden. Tutto ciò sarebbe meno inquietante se egli non fosse tra i più vociferati papabili post-Trump a candidarsi alla guida del partito per le prossime presidenziali.

La sua relazione a Orlando sembra proprio l’abbrivo di una campagna ideologica, la pietra angolare di un messaggio chiaro e nazionale, addirittura internazionale. Quel messaggio Hawley l’ha rivolto direttamente ai maschi. Gli pare infatti che l’egemonia da sovvertire perché l’occidente torni benestante, moralmente sano e in equilibrio, sia quella inflitta dalla sinistra al maschio contemporaneo, cui si dice sin da scuola di essere mandante ed esecutore di tutti i problemi della società.

Mortificato nella sua natura e dissuaso dal compiere il proprio destino manifesto, l’uomo diventa così sonnolento, senza figli e senza lavoro, ricurvo su di sé. Come hanno recentemente concluso anche gli organi della propaganda nazionale del partito comunista a Pechino, bandendo cantanti e comportamenti effeminati da radio e televisioni perché non infiacchiscano la virilità della gioventù cinese, Hawley ha individuato nell’intrattenimento le tossine che deviano la maschilità dal suo compito sociale e nazionale: nella pornografia in particolare, e nei videogiochi. Tali attività passive, infruttuose, conducono il maschio allo stato che, secondo Hawley, lo nega e lo abolisce: la “idleness”, che in italiano significa stasi, pigrizia, inutilità, inconsistenza.

Maschi a riposo

Ora, non starò qui a dire che è vero semmai il contrario. Che la fantomatica sinistra castrante, quella del famigerato politicamente corretto, vuole proprio decontaminare pornografia e videogiochi dai paradigmi maschili che hanno costretto entrambe le industrie in strettoie inabitabili e dannose, ormai anche noiose. Che i videogiochi poi, ormai, sono in realtà luoghi d’incontro, dialogo e cooperazione; per alcuni finestre che aiutano a emergere dalla depressione e dall’isolamento sociale, per altri occasioni di proficua solitudine contemplativa.

Non mi metterò neanche a spiegare perché l’ozio improduttivo è un farmaco fondamentale per chi cresce nelle maglie di stereotipi che riducono il dolore, le emozioni e persino la malattia fisiologica in indistinte minacce da reprimere, cui non si può dar voce. Né mi azzarderò a notare come i grandi modelli maschili della tradizione siano invero spesso colti nelle vibranti, potentissime sospensioni della idleness: l’Ercole Farnese che posa i muscoli di marmo sulla clava, il baffuto Marte di Velázquez sul bordo del letto (o quello glabro di Botticelli addormentato sul prato) e naturalmente lo stesso Davide, che Michelangelo scolpì in teso raccoglimento, prima della battaglia.

Per ritrarre il vetusto uomo del futuro invocato da questa giovane stella del conservatorismo americano vorrei indugiare invece sulla maschilità che lui stesso proietta, attraverso le sue cose.

Si guardi l’intervista che, dopo il discorso di Orlando, Hawley ha rilasciato a Mike Allen su HBO. Il contrasto tra il calvo, un po’ bolso giornalista affrettato e il carismatico senatore si gioca su pochi dettagli.

Entrambi calzano scarpe marroni autunnali e completo scuro d’ordinanza, uno nero e l’altro blu, ma Allen sfoggia calzini dalla colorata fantasia e una camicia azzurra, roba da (pur mainstream) intellettuale, segnali di una (pur attutita) personalità. Hawley invece, l’animatronic che snocciola gli attributi universali dell’uomo da strappare agli ottundimenti della dittatura culturale porno-ludica d’oggigiorno (padre, marito, occupato, occupatissimo), ha le caviglie fasciate di filo di scozia e una camicia bianca, immacolata.

Si tornerà in questa rubrica sui calzini, cose da maschio quant’altre mai. Oggi però l’oggetto d’analisi è quello che dice di più e si vede di meno, che è concepito per non farsi notare mentre tradisce fatti essenziali di chi lo indossa; quello di cui si dice che gli uomini come Hawley ci sono nati: la camicia. Bianca.

La camicia bianca

Forse Fabrizio De André pensava a Upton Sinclair, il leggendario socialista d’America che coniò il termine “colletti bianchi” per individuare i nemici di classe, quando cantava «quello che non ho / è una camicia bianca». Certo non ci pensava Guido Gozzano quando immortalava l’avvento di una maschile borghesia da camera, priva d’eroismo e tutta intenta a restituire vitalità agli oggetti disseccati e tramutati in merce dall’industria, facendo rimare «Nietzsche» con «camicie» nella Signorina Felicita, e così trascinando i metri della nostra poesia narrativa ed epica nell’effeminato reame dell’intimo e d’un ironico quotidiano erudito.

La camicia bianca è bianca perché il bianco si sporca, e può dunque distinguere chi per lavoro suda da chi invece no. Si direbbe dunque che dovrebbe essere la divisa dell’uomo contro cui Hawley si scaglia: quello sottratto alla produzione e alla paternità, al matrimonio e alla società, dalla idleness. Del resto, è anche per questo che la camicia dei fascisti, uomini d’azione, era (è) invece nera, mentre rossa era quella dei Mille per la pratica necessità che Garibaldi aveva incontrato in Uruguay dovendo, per mancanza di risorse, adottare camicie destinate al lavoro sanguinolento dei macellai.

Ma è proprio qui la perversione protestante e punitiva dell’egemone tardo capitalismo statunitense, le cui visioni distopiche di fine millennio (Matrix, American psycho, Memento, Le iene) sono tutte popolate da uomini in camicia bianca. Il maschio di Hawley deve avere i muscoli di un carpentiere senza mai usarli per lavorare, l’abbronzatura di un bracciante senza mai lasciare l’ufficio. Deve amare le donne ma rifuggire la femminilità, produrre prole senza aver tempo da trascorrere con essa, indossare un capo adatto all’ozio in un interminato negozio sordo a qualsiasi ammonimento del corpo e della psiche.

In uno spettro di rassicuranti grigi e blu, con qualche cravatta rossa, tutto varia nel guardaroba del senatore del Missouri tranne il punto di bianco della camicia, invariato simbolo di un’artificialissima virilità attiva paterna ed eterosessuale che incongruamente si sente naturale. Una virilità che sembra provenire dritta da un’iconica campagna promozionale americana d’inizio secolo, “Arrow Collar Man,” una campagna per vendere camicie.

In quei poster c’è sempre un singolo giovanotto col colletto bianco su cui lo sguardo di tutti, uomini e donne, converge rapito. Nella grammatica della pubblicità è ovviamente il candore della camicia di maschio perbene, di maschio realizzato, a sortire quell’effetto. Ma la storia dell’arte ci ricorda che l’illustratore della campagna, J. C. Leyendecker, basò la sua seminale invenzione dell’estetica da rivista su spazi e situazioni d’omosocialità maschile (lo spogliatoio, il club per soli uomini, la sartoria del camiciaio appunto) e che il modello del suo “Arrow Collar Man”, Charles Beach, era probabilmente anche il suo fidanzato.

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