Chi è uno scugnizzo? Secondo la Treccani è il classico monello napoletano, con le sue caratteristiche di ragazzo astuto e intelligente, vivace, disposto ad «arrangiarsi con qualsiasi espediente». Insomma, un ragazzo di strada, tutto istinto e scaltrezza, coraggio e capacità d’adattamento.

Ragazzini di strada che crescono già “imparati’”, “sfrontati”, “incoscienti”, ma anche “perseveranti” e “sognatori a occhi aperti”, ripetono gli intervistati sin dalle prime battute di Scugnizzi per sempre, la docu-serie di RaiPlay – con passaggi anche in lineare su Raidue nel corso dell’estate – che ripercorre una delle più incredibili e meno celebrate imprese sportive della storia nazionale recente: quella della Juvecaserta di basket e del suo primo e unico scudetto del 1991 che interruppe – seppur per un tempo durato quanto un soffio – il predominio delle squadre del nord.

Non solo basket

Prodotta dalla Tramp Limited di Ficarra e Picone con Rai Documentari e diretta da Gianni Costantino, la serie in sei episodi è un raro e prezioso esempio di racconto che fonda ricostruzione storica, ironia e afflato epico, fornendo una chiave di lettura imprescindibile non soltanto per ricomporre i frammenti di una cavalcata sportiva vincente, ma anche e soprattutto per affrescare l’atmosfera di un’epoca: i costumi, le abitudini, i suoni, i linguaggi, gli oggetti, i ritmi di una quotidianità ormai lontana e i pertugi entro cui scorgerne l’unicità.

In una parola, fa quello che un documentario sportivo deve fare nell’era delle piattaforme e della proliferazione dei contenuti, rifuggendo il tecnicismo per allargare il più possibile la platea, coinvolgendola e chiamandola a raccolta attraverso i canoni estetici e morali di un romanticismo che nello sport contemporaneo pare sempre più difficile da riscontrare.

Così, la docu-serie costruisce un itinerario alternativo della palla a spicchi italiana, andando a scavare nei volti e nelle storie di «un’epopea unica nel suo genere», quella di una città di provincia del mezzogiorno che si trova a sognare in grande e di una squadra con otto casertani, un allenatore casertano e un presidente, Giovanni Maggiò, bresciano d’origine che trova in questo fazzoletto di sud, il terreno ideale per dare corpo a un progetto «impossibile».

Tra realtà e finzione

La serie si apre rievocando il 21 maggio 1991, il giorno della gara decisiva al Forum tra l’Olimpia Milano, una delle squadre più titolate e blasonate della pallacanestro nostrana, e la Juvecaserta, ex piccola che da alcuni anni ha raggiunto stabilmente le vette del campionato senza ancora però essere riuscita a cucirsi sul petto lo scudetto. 

Telecronache dell’epoca – compare spesso l’indimenticabile Aldo Giordani – vecchi televisori piazzati al centro di salotti e cucine, autoradio gracchianti in strade deserte pronte a vestirsi a festa; è da qui che inizia il viaggio a ritroso attraverso interviste a protagonisti impreziosite e inframezzate da materiali inediti delle Teche Rai.

L’archivio audiovisivo del servizio pubblico non è soltanto uno strumento necessario di ricostruzione storica, ma diventa elemento centrale della narrazione, perno e punto d’incontro di un racconto che mescola l’approccio documentaristico (interviste, testimonianze, giornali dell’epoca) con quello finzionale, grazie a innesti di attori che interpretano i diversi personaggi, mettendo in scena azioni, dinamiche, abbracci e delusioni.

L’arma vincente

Ma i veri protagonisti sono gli eroi in carne e ossa di quell’impresa. Due su tutti: Nando Gentile ed Enzino Esposito, scugnizzi che a quindici-sedici anni si ritrovano quasi per caso catapultati in prima squadra. Il merito è della visione spregiudicata di “Boscia” Tanjević – allenatore della nazionale jugoslava – che all’inizio degli anni Ottanta viene ingaggiato da Caserta, rivoluziona i metodi d’allenamento, puntando sulla sofferenza e la frugalità, e porta la squadra in ritiro segreto a Pale, sui monti sopra Sarajevo, la stessa località che diventerà tristemente nota durante la guerra dei Balcani, quando Karadžić stabilirà lì il quartier generale dei serbi di Bosnia. Minuto e arguto, Tanjević incarna lo spirito slavo, ribelle e discontinuo, quasi un prolungamento della natura stessa degli scugnizzi.

Uno sguardo all’Italia

Quello delineato dalla docu-serie è anche l’universo variegato della pallacanestro nazionale, un viaggio dentro le geografie e le traiettorie identitarie della cultura cestistica nazionale, che ha inizio nel 1951 in una piccola città come Caserta, nell’immediato dopoguerra, grazie all’incontro tra appassionati locali (tra cui i fratelli Santino e Romano Piccolo, zii dello scrittore Francesco, che compare tra gli intervistati del documentario) e un manipolo di ex soldati americani di stanza in Campania.

Un percorso che intorno all’inizio degli anni Settanta incrocia la parabola di Giovanni Maggiò, l’imprenditore artefice di un autentico miracolo; uno che in barba alle lentezze della burocrazia fa costruire un nuovo palazzetto in cento giorni per sostituire quello vetusto non omologato dopo la promozione in A2, ma che soprattutto incarna una visione moderna, aperta, tutta testa, cuore e piedi calati nella comunità.

C’è un passaggio, all’inizio del secondo episodio, in cui il figlio Gianfranco svela la missione del padre: «Quando un’impresa come la nostra raggiunge una dimensione grande, il profitto non deve essere più visto come un fine, ma come un mezzo. Noi abbiamo il dovere di far beneficiare di questo profitto non solamente la nostra famiglia, ma tutta la comunità che ci circonda. Questo è il dovere dell’imprenditore».

Riecheggiano i tratti e i valori della migliore imprenditoria illuminata del Novecento, in una compenetrazione d’altri tempi tra i diversi soggetti del tessuto sociale. E tutta la città, in effetti, ne risente; il palazzetto alla periferia di Caserta diventa occasione di esibizione della borghesia cittadina, luogo in cui sfilare nel parterre con l’abito migliore, status sociale e d’appartenenza, spazio in cui marcare il proprio bisogno di esserci e farsi notare.

Come i volti dello star system californiano, che amavano mostrarsi a bordocampo durante l’epopea dello “Showtime” dei Los Angeles Lakers, a Caserta andava in scena un Winning time in sedicesimi  – per citare la serie su quell’esperienza irripetibile della squadra di basket dell’Nba – con le signore impellicciate e le ragazzine che facevano a gara per uno sguardo o un’uscita con i campioni coetanei e concittadini.

Il meccanismo della serie

Costruita sfruttando i classici espedienti drammaturgici del genere (l’ascesa, le cadute, il trionfo), Scugnizzi per sempre può essere considerata una riedizione in salsa campana di The last dance, la docu-serie su Michael Jordan che ha segnato un punto di svolta per il genere; e in quello scarto tra l’ultimo ballo dei Chicago Bulls e l’eternità scandita dell’esperienza di Gentile e soci, sta l’unicità di una storia che è allegria e riscatto, polvere e passionalità.

LaPresse

L’ultimo canestro è il titolo dell’episodio conclusivo, l’apoteosi di una scalata cominciata dieci anni prima, la battaglia punto a punto che porta la città della Reggia sul tetto del basket italiano.

La storia passa accanto alla Juvecaserta

Gli anni di passaggio tra gli Ottanta e Novanta sono raccontati attraverso gli immaginari – anche ideologici – di un mondo in cambiamento; il legame con la Jugoslavia di Tanjević non scalfisce il “filo-americanismo” di quella periferia del Meridione, con i poster a stelle e strisce nelle camerette e l’allenatore Franco Marcelletti  – casertano pure lui, che prenderà il posto del bosniaco e guiderà la squadra allo scudetto – che studia basket su riviste americane di rara diffusione, rintracciabili solo nella base Nato di Napoli.

Una squadra che vola anche sugli entusiasmi del Muro abbattuto, interpretando a modo suo gli echi finali della “guerra fredda”. E poi gli oggetti: i canestri disegnati sui muri, le musicassette, le cabine del telefono, il duplex con cui Enzino Esposito viene a conoscenza della sua prima convocazione ascoltando una telefonata tra il padre e l’allenatore.

Lapresse

I giocatori sono la chiave 

A conferire dinamismo a un prodotto che, nonostante la lateralità della vicenda raccontata, appare sempre avvincente, è una scrittura che punta molto sul rivangare le relazioni tra i protagonisti dell’impresa: un focus su personalità diverse, spigolose, eccentriche, tenute insieme da un irripetibile spirito di gruppo, che talvolta diventa ingombrante e necessita di dolorosi correttivi, come quando alla fine del quarto episodio scopriamo che l’unico modo per il salto di qualità è quello di mettere da parte il brasiliano Oscar Schmidt, uno che Gentile ed Esposito li portava in macchina all’allenamento quando ancora non avevano la patente.

In questo senso, Scugnizzi per sempre sembra ricalcare le orme di Una squadra, il documentario di Domenico Procacci sui protagonisti della vittoria azzurra nella Coppa Davis di tennis del 1976.

Una squadra, quella della Juvecaserta, segnata da uomini e storie profondamente mediatici, capaci di attirare attenzioni pubblicitarie (Indesit e Phonola), in un mondo come quello del basket dove lo sponsor non svende l’anima dei club, ma spesso la sublima come alternativa forma d’identità.

Scugnizzi per sempre è un tassello rilevante della produzione di documentari sportivi italiani, una fonte d’ispirazione in un mondo dello sport assuefatto a nuove logiche. Quella di Caserta è stata un’azione rivoluzionaria, intergenerazionale e interclassista, in un mondo chiuso ed elitario. E come tale, destinata a sparire in fretta, a durare l’espace d’un matin. Perché, come dice Tanjević in apertura della serie, “eravamo rivoluzionari e la gente non ama i rivoluzionari”.

© Riproduzione riservata