Cinquant’anni fa le circostanze inattese e scabrose della morte di un cardinale francese, il gesuita Jean Daniélou, riaccesero l’attenzione su una delle personalità più brillanti e discusse della cultura e della teologia contemporanee.

L’infarto

Parigi, primo pomeriggio di lunedì 20 maggio 1974. È una giornata molto calda, il prelato sessantanovenne – da un anno e mezzo accademico di Francia – muore d’infarto nell’appartamento di una giovane prostituta corsa. In casa di amici, secondo un primo comunicato.

Il giorno successivo Paolo VI manifesta dolore, stima e affetto per il cardinale, esaltando «l’originalità delle sue innumerevoli pubblicazioni, vanto della cultura cattolica». Ai funerali, celebrati solennemente a Notre-Dame dall’arcivescovo di Parigi alla presenza del generale dei gesuiti Pedro Arrupe, partecipa il ministro Alain Peyrefitte. «Giovedì scorso eravamo ritornati insieme dall’Accademia» dice sconvolto Maurice Schumann, che ricorda come Daniélou avesse «delle qualità in apparenza contraddittorie: la riflessione e la vivacità, la ragione e l’entusiasmo, la lucidità e l’ottimismo».

Le calunnie

Pochi giorni ed esplode lo scandalo, gonfiato dai settimanali satirici con accenti anticlericali. Gli ambienti cattolici francesi reagiscono con imbarazzo, divisi da una figura geniale e autorevole ma dai contorni decisi, per le sue prese di posizione ritenute ormai troppo tradizionali.

I gesuiti indagano a lungo, Daniélou è al di sopra di ogni sospetto, ma all’inchiesta non viene dato vero sostegno. «Ormai le calunnie sono cessate, ma mi hanno fatto dubitare della Compagnia e del suo spirito fraterno» dichiarerà molto più tardi il filosofo Xavier Tilliette, gesuita schierato invece con Daniélou.

Da almeno un paio d’anni si erano infatti accentuate le tensioni tra i confratelli più progressisti e il cardinale, che nel 1972 in un’intervista alla Radio vaticana si era detto convinto del futuro della vita religiosa nella «civiltà tecnica» dove «si farà sentire il bisogno della manifestazione di Dio».

Ma aggiungendo una critica netta, com’era nel suo stile: a patto – affermava – che la vita religiosa «ritrovi il suo autentico significato e rompa radicalmente con una secolarizzazione che la distrugge nella sua essenza e le impedisce di attirare vocazioni».

A difendere senza esitazioni il cardinale sarebbe stato un gruppo di amici, tra cui intellettuali di rango come Henri de Lubac e Henri-Irénée Marrou. E in Italia il musicologo Quirino Principe – da un punto di vista «laico e antiecclesiastico all’estremo» – definirà «indecifrabile quell’ultimo segreto di un uomo d’altissima moralità e qualità intellettuale», sicuro che nessuna «“verità” più o meno pruriginosa potrebbe modificare alcunché del nostro giudizio su una figura luminosa, il cui carattere umano, affabile, sorridente, generoso, merita soltanto ammirazione e affetto».

Caduto in ginocchio

Primo di sei figli, Jean Daniélou era nato nel 1905 in una famiglia senz’altro non comune. La madre Madeleine Clamorgan era una cattolica militante e all’avanguardia, molto impegnata nell’ambito educativo delle giovani donne, il padre Charles un giornalista laico, deputato e più volte ministro nei governi radicali.

Suo fratello Alain, musicista e musicologo, amico di letterati e artisti, a trent’anni si trasferisce in India con il compagno, il fotografo svizzero Raymond Burnier. Prende il nome di Shiva Sharan («protetto di Shiva») e si afferma come studioso dell’induismo.

I due fratelli Daniélou più celebri, pur così diversi tra loro, restano molto legati e a loro dedicherà un libro (Le cardinal et l’hindouiste) la pronipote Emmanuelle de Boysson. Autrice di una trilogia familiare, la saggista raccoglierà la testimonianza di Gilberte “Mimi” Santoni.

Alla giovane prostituta il prozio quel pomeriggio portava tremila franchi per aiutarla a pagare l’avvocato del marito, che era in carcere: «È caduto in ginocchio. La sua testa si è schiantata sul pavimento. Un ultimo respiro e poi niente. Molto tempo dopo mi sono detta: che bella morte per un cardinale cadere in ginocchio».

Ma già il fratello Alain aveva scritto: «La sua morte e lo scandalo da essa provocato, quando lui era diventato una delle maggiori figure della chiesa, è stata una specie di vendetta postuma, uno di quei favori fatti dagli dei a quelli a cui vogliono bene. Se fosse morto qualche momento prima o dopo, o se avesse fatto visita a una signora del sedicesimo arrondissement con il pretesto di opere di beneficenza invece di portare i proventi dei suoi scritti teologici a una povera donna bisognosa, non ci sarebbe stato nessuno scandalo. Da sempre Jean si era dedicato alle persone malviste».

Aggiungendo divertito, e poi serio: «C’era chi ci confondeva l’uno con l’altro e alcuni critici avevano persino attribuito a mio fratello il mio libro L’érotisme divinisé dicendo: “Si sa della libertà di spirito dei gesuiti, però…”. Mio fratello provvide a dimostrare che lo scandalo non è dato dalle nostre credenze o dai nostri atti ma dall’ironia degli dei, che ridono di queste accozzaglie di regole di vita e di cosiddette “verità che bisogna credere”, di cui gli uomini attribuiscono a loro la paternità».

Solitario in mezzo al popolo

Filologo classico, nel 1927 Jean traduce in latino l’Oedipus rex di Jean Cocteau per l’opera oratorio di Igor Stravinskij. Dopo il servizio militare s’impegna a Parigi nella Compagnia di San Paolo, fondata da don Giovanni Rossi, e conosce Louis Massignon, i coniugi Maritain, Emmanuel Mounier. Entrato nei gesuiti, viene ordinato prete nel 1938. Ma è lo studio della teologia a Lione a segnare la sua strada facendogli incontrare Henri de Lubac, lo svizzero Hans Urs von Balthasar e Victor Fontoynont. Gli anni tragici della guerra si rivelano decisivi per il giovane intellettuale. Nel 1942 è il vero fondatore della più importante collezione di testi cristiani antichi (ma poi anche medievali ed ebraici) – le «Sources Chrétiennes» – ed è proprio Jean Daniélou a curarne il primo volume: La vita di Mosè di un autore greco del IV secolo, Gregorio di Nissa. Alla dottrina spirituale di questo mistico imbevuto di platonismo dedica due anni più tardi la sua prima opera.

Tratteggiando il padre della chiesa Daniélou descrive sé stesso: non un «solitario che fugge l’umanità per assicurare la sua tranquillità personale», perché le figure centrali dell’opera dell’antico teologo sono «circondate da un popolo e animate da un movimento continuo, da una sorta di flusso e di riflusso, di contemplazione e di apostolato». Come il fratello Basilio il Grande, come san Paolo, come Mosè, «iniziato sulla montagna ai misteri della vita divina, ma anche guida di Israele fuori dalla terra d’Egitto».

Il teologo della svolta

Un’eco enorme suscita l’articolo di Daniélou sugli «orientamenti presenti del pensiero religioso» pubblicato nel 1946 sulla rivista «Études». Vero e proprio manifesto della «teologia nuova» stroncata quattro anni prima da Roma, è un testo chiaro e bruciante che caratterizza questa novità come una ripresa necessaria del contatto con le fonti: la Bibbia, i padri della chiesa, la liturgia. È l’annuncio controcorrente di una svolta, quarant’anni dopo l’indiscriminata e durissima repressione romana del modernismo visto come un cumulo di eresie, vera e propria gelata che ha paralizzato il pensiero e la ricerca dei cattolici.

«Il presentimento di una rottura fra la teologia e la vita», scrive Daniélou, «è stato provato poco tempo fa in maniera acuta dalla generazione presso cui è nato il movimento chiamato “modernismo”. Come in tutte le crisi religiose, ciò che è discutibile nel modernismo non è il problema che ha posto, ma la risposta che vi ha apportato».

I freni di Roma «non sono delle risposte». E bisogna abituarsi al fatto «che il cristianesimo, il quale si è espresso dapprima nelle forme della cultura greco-romana, è chiamato a incarnarsi anche nelle altre grandi culture mondiali, quelle dell’India, della Cina, dell’Africa». Costretto nel 1948 a ritirare i suoi «dialoghi», il gesuita non arretra e nel ventennio successivo pubblica libri e studi dalle intuizioni geniali e aperte, come il libro su Origene, la trilogia sulle dottrine cristiane dei primi tre secoli, il saggio sulla preghiera come «problema politico».

Attivissimo al concilio come teologo, ne contesta poi le derive, ma non guarda indietro. «L’aria del largo sferza il mio viso» scrive. E il domenicano Ambroise-Marie Carré, suo successore all’Accademia, commenterà che il bretone Jean Daniélou non si riferiva all’Atlantico, ma a un altro oceano e a un altro vento, quello dello Spirito.

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