Sarei tentata di parafrasare la profezia leggendaria di Jon Landau su Bruce Springsteen di quel remoto maggio 1974: ho visto il futuro del cinema, e il suo nome è Kristoffer Borgli. Vinco la tentazione perché sarebbe da grulli, ma la mia cotta cinefila ha un alleato autorevole nel guru della commedia irriverente, John Waters, che di questo trentottenne norvegese è un fan sperticato.

Dream Scenario, secondo lungometraggio di finzione di Kristoffer Borgli, alla Festa del Cinema di Roma è passato a dir poco in sordina. Il tricolore imperava, in una rassegna che sempre più, con poche eccezioni, è il cul-de-sac di tanta produzione nostrana senza futuro, buona solo per intascare il tax credit. Il norvegese ha sfornato in due anni due film capitali.

Sick of Myself era lo scorso anno agli onori di Cannes, così brillante da sedurre, con l’intermediazione del danese di culto Ari Aster, la lungimirante A24, che ha portato all’Oscar l’outsider Everything Everywhere All at Once. Con Dream Scenario Borgli si è catapultato nello star system americano e ha strappato a un divo come Nicolas Cage la sua massima prova d’attore dai tempi di Adaptation (Il ladro di orchidee, 2002). Ma è riuscito, miracolosamente, a non snaturarsi.

Inquilino dei sogni

Kristoffer Borgli, che scrive, dirige e monta anche i suoi film, fabbrica allegorie sul tritacarne mostruoso dell’era social e sulle deliranti strategie di marketing che ne derivano. Fabbrica satira sociale comicissima e disturbante quanto quella del suo affine svedese Ruben Östlund (The Square, Triangle of Sadness), ma più mirata.

Il Nicolas Cage di Dream Scenario è l’anonimato fatto persona: professore banale di biologia evoluzionista in un campus banale, padre e marito passivo, grigio, pelato e noioso, uno che in classe fa sbadigliare gli studenti. Il fallimento è nel suo dna: sogna di pubblicare, ma non ha mai scritto un libro. Di colpo, da invisibile diventa visibile, anche troppo: inspiegabilmente sta comparendo nei sogni di chiunque. Diventa un caso mediatico involontario quando un’ex fidanzata racconta lo strano fenomeno di epidemia onirica nel suo blog.

Se diventi virale, i network si gasano, i podcast ti si contendono, gli studenti vanno in orgasmo e le tue figlie in classe diventano eroine da selfie. Nel futuro ognuno sarà famoso al mondo per quindici minuti, pronosticava Andy Warhol. Ma le nuove leggi dei social sono ben più insidiose e perverse di quanto Warhol potesse immaginare.

Da new celebrity, da icona adottata perfino nei travestimenti di Halloween, il prof Paul Matthews è stato accalappiato dal tycoon dell’agenzia di branding Thoughts (Michael Cera), che progetta di proiettarlo nei sogni della popolazione mondiale con in mano una lattina di Sprite. Il genio satirico di Borgli qui arriva al culmine. «Possiamo metterti nei sogni di Obama, conosco la figlia», suggerisce la copy in carriera.

Da famous a infamous

Ma c’è una parabola fisiologica nelle dinamiche social che cambia di segno il successo virale. Da inquilino passivo dell’attività onirica, il prof si evolve ad aggressore erotico (con esilaranti default di scorregge nervose quando una sventurata prova a convertire il sogno in realtà) e a carnefice, un’escalation tragica che prescinde dalla sua volontà.

Gli eroi effimeri dell’inconscio collettivo sono condannati a questa stessa parabola. Kristoffer Borgli mi spiega, a voce, che ha raccontato in metafora la tall poppy syndrome, la sindrome del papavero alto, cioè la tendenza a screditare e demonizzare chiunque abbia raggiunto gli altari della fama mediatica. Il mondo è pieno di questi esempi. Lui ne ha fatto un apologo.

Negli incubi collettivi Paul Matthews diventa una sorta di Freddie Kruger, strangola, tortura, mutila dita e le divora, ispira neologismi (“Paultergeist”) da splatter estremo. Il campus organizza corsi speciali per disinnescare quei trigger (sono i punti anatomici supereccitabili che stimolano reazioni parossistiche) nei cervelli degli studenti terrorizzati, ma finirà per sospendere dall’insegnamento quell’incarnazione del Male che nella vita reale è rimasto l’inoffensivo Signor Nessuno di sempre, immeritevole di trionfo quanto di infamia.

L’humour nero, nerissimo, del norvegese gli suggerisce un finale in cui il cinismo iperbolico delle multinazionali tecnologiche trova il suo tornaconto. ATTENZIONE, SPOILER! Quel disastroso prototipo ispira il nuovo must del consumismo di massa nell’era dell’intelligenza artificiale, un navigatore a tariffa per pilotarsi a piacere i sogni.

E il povero Nicolas Cage, esule ormai senza famiglia né casa, persona sgradita in America come ogni vittima di gogna e shitstorm bollata dalla pubblica opinione, andrà in tour nella Francia più tollerante e trasgressiva, finalmente da autore di un libro. Ma non è il saggio sull’intelligenza delle formiche che sognava di scrivere. Si intitola Je suis ton cauchemar, “Sono il Tuo Incubo”. «Doveva essere “Dream Scenario”, ma va bene così», commenta il prof rassegnato. La cancel culture ha trovato la sua definitiva (finora) allegoria dark.

«Noi scandinavi», dice Borgli, «fruitori privilegiati di un welfare system efficiente, abbiamo una qualità peculiare di umorismo cupo che credo derivi dall’infelicità di vivere al buio e al freddo. Gli scrittori-registi come Ruben Östlund, come Lars Von Trier, hanno come me la tendenza a rileggere la nostra condizione comune con ironia». Caso vuole che a nutrire il suo immaginario da adolescente sia stato il lavoro in una videoteca, Quentin Tarantino docet. «Le risate più soddisfacenti», teorizza, «vengono da un luogo in cui si cerca di non ridere».

Sick of Myself

È consigliabile però recuperare il film precedente, Sick of Myself, sottotitolo An Unromantic Comedy, che da noi è uscito in sala poche settimane fa. Tecnicamente è il suo film d’esordio – anche se Borgli aveva già firmato una docu-fiction sulle perversioni del marketing contemporaneo (Drib) – ma è un osservatorio di lucidità sconcertante sul Terzo millennio in chiave grottesca, comica e tragica insieme, comunque estrema.

È l’opera con cui Borgli ha iniziato l’indagine sul motore primo della deviazione tossica da dipendenza social, ovvero narcisismo ed esibizionismo. Nessuno ha ancora inventato il vaccino contro il virus, ad alto tasso di contagiosità, della ricerca di attenzione a tutti i costi: è il bisogno di emanciparsi dall’invisibilità. «Dalle nostre parti assume caratteri paradossali», spiega il regista, «perché, laddove in America ti insegnano che chiunque può diventare presidente, nei paesi scandinavi ti scoraggiano dalla culla. Il mantra è: sii normale, non farti notare, resta sempre un passo indietro e non ficcarti in testa strane ambizioni».

La giovane Signe del film (Kristine Kujath Thorp) è afflitta dal tarlo dell’invisibilità, amplificato da un partner che è la parodia dell’artista concettuale di tendenza. Thomas (Eirik Saether, che non è un attore, ma un vero scultore e pittore amico di Borgli) è diventato un idolo dell’intelligentsia mondana per le sue installazioni a base di oggetti di design sgraffignati.

Grazie a un farmaco russo dai devastanti effetti collaterali, Signe riesce a diventare un freak da tabloid, una Elephant Woman virale sui social e corteggiata dal progressismo inclusive del fashion marketing corrente. È un film disturbante ma esilarante, un body-horror tra eventi possibili e proiezioni fantastiche.

Magari non sarà il Bruce Springsteen del cinema, ma Borgli ha davanti un futuro smagliante. Fatto di personaggi sgradevoli, unlikeable. «Perché non sopporto», dice, «la gradevolezza come termometro di qualità».

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