Non avendo grandi doti da critica letteraria, soprattutto se si tratta di testi filosofici (ottima premessa per un articolo come questo), ho cercato su Google altre recensioni del nuovo libro di Raffaele Alberto Ventura edito da Einaudi, immettendo nel campo di ricerca solo il titolo: La conquista dell’infelicità.

Un lettore maligno potrebbe pensare che volevo copiare quello che aveva scritto qualcun altro, vi inviterei invece a gioire del fatto che non ho chiesto a ChatGpt di scrivere questa riflessione.

Ma torniamo alla mia ricerca: prima dei link ai siti su cui acquistare il libro e gli articoli a riguardo, Google ci tiene a farmi una domanda (senza punto interrogativo) scritta in rosso e blu: Forse cercavi: La conquista della felicità. Il titolo del saggio di Bertrand Russell ha sicuramente più anni di ricerche online sulle spalle rispetto a quello col titolo storpiato da Ventura e l’algoritmo può legittimamente supporre un errore, ma è il genere di correzione che potrebbe fare anche la nostra intera società: non è l’infelicità che va conquistata, ma la felicità, sciocchina.

Ma è arrivato il momento di chiedersi: a quale prezzo si conquista la felicità? Quanto costa all’individuo, alla società e al pianeta? E perché, nonostante tutto questo dispendio di risorse, sembra non arrivare mai?

Contro la realizzazione 

Queste sono alcune delle domande a cui cerca di rispondere Raffaele Alberto Ventura in un saggio che dovrebbe finire tra le mani di chiunque si sia sentito preso in giro dall’idea della realizzazione personale  – lasciando perdere certi manualetti di auto-aiuto che realizzano più i loro autori dei lettori.

«Realizzarsi», «diventare sé stessi», roba che suona da guru ma che come spiega bene Ventura è una questione che viene analizzata da più di un secolo, come faceva Max Weber descrivendo l’importanza per il capitalismo del Beruf, cioè la vocazione che è anche professione. Solo che ora sembra impossibile trasformare la vocazione in professione, ovvero camparci, ma ci si prova spesso perdendo, o come meglio dice Ventura: «La realizzazione personale assomiglia sempre di più a un gioco d’azzardo» – una delle tante (forse troppe) frasi che ho sottolineato durante la lettura.

In La conquista dell’infelicità Ventura fa un formidabile lavoro di sintesi di quello che si è detto del disagio dell’individuo contemporaneo nella società occidentale. Il sottotitolo, Come siamo diventati classe disagiata, fa riferimento al suo libro culto Teoria della classe disagiata del 2017, in cui ha raccontato come una classe di lavoratori (creativi, culturali, intellettuali) da sempre parte della borghesia si sia dovuta scontrare negli ultimi decenni con una nuova scarsità di risorse, soldi, posti di lavoro, passando da classe «agiata» a “disagiata”.

Per attestare il successo di questo libro, se lo cercate su Google non compare la scritta Forse cercavi: Teoria della classe agiata, ovvero il saggio dell’economista Thorstein Veblen sui consumi e l’estetica usata dalle classi privilegiate per mantenere il proprio privilegio e che Ventura ha preso come punto di partenza.

L’industria creativa

Apro un inciso personale: io Teoria della classe disagiata lo avevo odiato come si odia chi ti dice in maniera troppo ben argomentata un tuo difetto, finendo poi per rivalutarlo quando avevo capito che era il mio lavoro frustrante e spesso non pagato nell’industria creativa ad essere il problema, non l’analisi di Ventura.

Continuo a stare sui fatti miei per dire che quando ho visto l’annuncio di questo nuovo saggio sulle pagine social di Einaudi mi trovavo in una fase diversa molto diversa della vita: la realizzazione professionale nell’industria creativa è arrivata, ma non ha nulla a che vedere con i racconti di chi lo ha fatto prima di me (soprattutto dal punto di vista economico, «Se tu avessi fatto questo lavoro negli anni Ottanta…» è una delle frasi che ho sentito di più da colleghi più anziani, io purtroppo in quel periodo ero impegnata a nascere), e questa realizzazione è costantemente minacciata da nuovi media, intelligenze artificiali, crisi economiche, sanitarie, ambientali.

Se non avessi fatto pace con la formidabile capacità di analisi di Ventura, che in questo saggio è benedetta da una chiarezza di scrittura che lo rende accessibile anche a chi non frequenta questi argomenti, forse gli sarei andata sotto casa a minacciarlo fisicamente.

Il capitolo migliore del libro, sull’economia vocazionale, ovvero il modello economico basato sulle scommesse ottimistiche che la classe disagiata fa sull’avvenire, mi ha fatto venire in mente con un certo imbarazzo quando mi è stato chiesto di tenere un corso di scrittura comica per un fine settimana, con cui ho evidentemente partecipato a questo scambio di beni e illusioni (soprattutto l’illusione che io sia in grado di insegnare).

Non solo per millennial 

Nonostante lo svergognamento resisto dall’odiare Ventura anche perché in questo libro, che non è un seguito di Classe disagiata ma una specie di extended version che non necessita di aver letto il prequel, è ancora più chiaro come il problema del fallimento del concetto di realizzazione personale, fondante della società liberale e capitalista, non sia solo della nostra generazione millennial (anche Ventura negli anni Ottanta era impegnato a nascere), ma colpisce l’intera classe media contemporanea.

Da una parte chi ha lavorato in “altri tempi” e con il suo patrimonio mantiene le ambizioni delle generazioni più giovani, che non hanno però le opportunità che gli erano state promesse, tutti uniti dal mito della realizzazione personale che passa per una formazione sempre più lunga, sempre più costosa, e che non avrà mai una riconversione di questi investimenti, e tutto questo erodendo le risorse limitate del pianeta.

Perché la società liberale produce delusione, e quando la civiltà attraversa una fase di delusione solitamente fa la rivoluzione: questa è la fase in cui ci troviamo, quella in cui ci chiediamo le stesse cose che un partecipante di Temptation Island chiede al presentatore quando capisce che la sua fidanzata non vuole tornare con lui: che si fa? Che dobbiamo fare?

Ventura prova a ricostruire come siamo arrivati qui analizzando il lavoro dei filosofi, personaggi della letteratura (le nevrosi di Amleto, un “disagiato” che ha studiato da Re senza poterlo fare, o il rapporto con gli oggetti simbolo di status alto delle sorelle March di Piccole Donne) e della cultura pop (le costanti “crisi” di cui si parla nei giornali come il costante stato di crisi di Gotham City; Inside Out della Pixar e l’incompatibilità del mondo con gli imperativi dell’insopportabile Gioia), senza risultare mai eccessivamente complesso, ma nemmeno divulgativo in modo stucchevole, perché in fin dei conti siamo classe disagiata, i nostri titoli di studio non ci avranno fatto trovare un lavoro, ma ci fanno apprezzare un saggio come questo.

Sul fatto che riescano a farci uscire da questo impasse non saprei. Magari comprando un altro libro, facendo un altro workshop…


La conquista dell'infelicità. Come siamo diventati classe disagiata (Einaudi 2025, pp. 264, euro 18) è un saggio di Raffaele Alberto Ventura

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