La vita o è stile o è errore. Michela Murgia è una mia amica. Il suo libro, Tre ciotole, Mondadori Strade blu, è primo in classifica con un cospicuo numero di copie. È stato anche il libro più venduto la scorsa settimana all’affollatissimo Salone del Libro di Torino, l’ultima edizione ben diretta da Nicola Lagioia.

Ogni libro di Michela Murgia è un evento. Dai tempi di Accabadora. Perché attinge alla potenza della letteratura. Sono di parte, perché sono l’editor di questo libro. Qualcuno ha affermato che sia splendido, altri hanno espresso riserve. Io, come è giusto, non esprimo alcun giudizio. Cercherò di dire come è fatto.

È un romanzo fatto di storie che si incrociano, con personaggi che traslocano da una storia all’altra, un po’ come in Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan. Si innamorano di una sagoma di cartone o di un pretoriano in miniatura, odiano i bambini pur portandoseli in grembo, lasciano una donna ma ne restano imprigionati, vomitano amore e rabbia, si tagliano, tradiscono, si ammalano.

Un anno di crisi

I protagonisti di queste storie stanno attraversando un cambiamento radicale, un periodo di crisi. Sono storie a incastro, apparentemente isolate come solitaria è stata l’esperienza globale della pandemia, durante la quale le crisi personali hanno assunto dimensioni imprevedibili e costretto ciascuno a forme inedite di sopravvivenza emotiva, spesso indicibili. Il sottotitolo è infatti Rituali per un anno di crisi.

Le voci distinte dei personaggi di queste storie, tutti legati senza saperlo, parlano coralmente in un libro insieme intimo e universale, dove il vero protagonista è il tempo del cambiamento radicale. 

È la soglia degli eventi che rovescia il paradigma di ogni biografia, quando l’esistenza gira in un istante e niente può impedirlo. Una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita.

A volte è un lutto, un licenziamento, una malattia, la perdita di una certezza o di un amore, ma sempre è un mutamento dell’orizzonte delle tue speranze che non ti lascia scampo. 

Attraversare quella linea di crisi mostra che a volte la migliore risposta a un disastro che non controlli è un disastro che controlli, a costo di essere tu stessa a generarlo. Le storie sono tutte brevi, come in un celebre racconto, fondativo delle short stories sulla crisi, Il crollo (The crack up) di Francis Scott Fitzgerald.

Studiare il coreano

Michela Murgia ha scritto tre romanzi: Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria – che ha ispirato il film di Paolo Virzì Tutta la vita davanti –, Accabadora e Chirù. Tre ciotole è il quarto.

Nella vita, come ha rivelato quando ha paragonato il proprio curriculum a quello del ministro Matteo Salvini, ha consegnato cartelle esattoriali, ha insegnato per sei anni religione, ha diretto il reparto amministrativo di una centrale termoelettrica, ha portato piatti in tavola, ha venduto multiproprietà, ha fatto la portiera notturna in un hotel.

Ha studiato teologia, ha giocato ai giochi di ruolo, adora il k-pop e i Bts, una musica e un gruppo coreano che le danno grandissima gioia. Ha iniziato a studiare il coreano per capire i testi.

Poi la scrittrice Jhumpa Lahiri le ha spiegato il vero motivo per cui lo sta facendo: gli scrittori postcoloniali, che hanno avuto successo non nella loro lingua originaria ma in quella dominante del colonizzatore, tendono a cercare un terzo spazio, una terza patria. Per Lahiri, che ha origini indiane e scrive in inglese, è l’Italia. Per Murgia, che è sarda e scrive in italiano, è la Corea.

«Forse ci andrò quando disperderanno le mie ceneri nell’oceano, a Busan. Nel coreano cerco parole che nessuno ha mai usato contro di me, e che io non ho mai usato contro nessuno».

Il cancro

Ha detto a tutti che è malata. Si è tagliata i capelli a zero, perché nessuno si deve sentire in colpa o vergognare perché è malato e nascondere la propria condizione sotto una parrucca. Concita De Gregorio ha seguito e rilanciato l’esempio. L’enorme personalità di Murgia sfonda pareti semiotiche con grande efficacia simbolica contro il patriarcato.

«Il cancro – ha detto a Aldo Cazzullo nell’intervista al Corriere – non è una cosa che ho; è una cosa che sono. Me l’ha spiegato bene il medico che mi segue. Gli organismi monocellulari non hanno neoplasie; ma non scrivono romanzi, non imparano le lingue, non studiano il coreano. Il cancro è un complice della mia complessità, non un nemico da distruggere. Non posso e non voglio fare guerra al mio corpo, a me stessa. Il tumore è uno dei prezzi che puoi pagare per essere speciale».

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