Il papa è tornato dalla Francia, anche se ha detto che il suo viaggio è stato a Marsiglia e non nella nazione tradizionalmente definita «la figlia primogenita della chiesa». Come già era avvenuto a Strasburgo, dove però Bergoglio aveva dedicato poche ore per visitare solo le istituzioni europee, evitando persino di recarsi nella cattedrale della città alsaziana.

Ai giornalisti francesi lo stesso Francesco ha più di una volta spiegato che nella sua programmazione dei viaggi in Europa vengono prima i piccoli paesi, e in effetti come papa non ha visitato nemmeno la Spagna, per limitarsi a un solo paragone. Ma Bergoglio «non prova alcun fascino particolare per la Francia», come scrive Bernard Lecomte nel suo Dictionnaire amoureux des papes.

Eppure, nonostante la tiepidezza del pontefice, che suscita interrogativi oltralpe e delude dopo l’evidente francofilia dei papi del concilio (Montini e Ratzinger su tutti), è proprio alla Francia che il papato contemporaneo deve in buona parte la sua configurazione. Sui fondamenti di una storia che risale all’alto medioevo, ma soprattutto grazie alle vicende susseguitesi nei decenni convulsi che la chiesa di Roma ha attraversato dalla rivoluzione francese sino al crollo del potere temporale.

Un lungo rapporto

A metà dell’VIII secolo il papato, per svincolarsi dal pur lontano impero bizantino ma soprattutto dall’oppressione longobarda, puntò sui franchi. Come riassume Machiavelli, «pensò che gli bisognava cercare nuovi favori, e ricorse in Francia a quegli re». Non a caso di santa Petronilla, la leggendaria figlia di san Pietro, era molto devoto il sovrano franco Pipino. E tuttora, nella festa liturgica, una messa viene fatta celebrare dall’ambasciata di Francia presso la Santa sede all’altare che in San Pietro è dedicato a Petronilla, segno dell’antica relazione con la sede romana.

Secoli più tardi, allo scontro in cui la monarchia nazionale di Filippo IV il Bello prevale sul sogno teocratico di Bonifacio VIII segue il settantennio avignonese. Sulle rive del Rodano dal 1309 al 1377 si succedono allora sette pontefici francesi e viene edificato un magnifico palazzo papale, ma soprattutto la curia romana – che mantiene questo nome perché «dove sta il papa lì è Roma» (ubi papa ibi Roma) – perfeziona e consolida le sue strutture.

Alterni ma difficili restano i rapporti tra la monarchia francese e il papato. La frattura protestante è accompagnata da sanguinose guerre di religione, in uno scenario dove l’influenza politica di Roma è ridotta al minimo. All’assolutismo dei sovrani si sommano le orgogliose tradizioni di autonomia della chiesa gallicana, l’aspro scontro teologico tra gesuiti e giansenisti, le conseguenze dell’illuminismo.

Il periodo rivoluzionario

Tutto naturalmente cambia con la rivoluzione francese. L’insostenibilità dell’antico regime, le incertezze di Roma e l’ondata di un anticlericalismo che si trasforma in una violenta e sanguinaria scristianizzazione portano nel 1798 all’arresto del pontefice, che viene deportato. In prigionia, ormai sfinito, Pio VI – il «cittadino Braschi» – muore l’anno successivo a Valence, a un centinaio di chilometri a nord da Avignone, che fino alla rivoluzione era ancora sotto il dominio papale.

Ma nel 1801 il concordato con la Santa sede voluto da Bonaparte primo console ha per effetto di dare al nuovo papa Pio VII un potere senza precedenti sull’episcopato francese, nonostante si riaccendano subito contrasti tra Parigi e Roma. Il pontefice ottiene la restituzione delle spoglie del predecessore, e la traslazione è vista come quella di un martire, che viene solennemente sepolto a San Pietro. Qui un ventennio più tardi Canova lo raffigura inginocchiato in una statua collocata di fronte alla tomba del primo apostolo.

Al rientro della salma di Pio VI si aggiungono i viaggi e i lunghi soggiorni in Francia del suo successore Pio VII. Una prima volta dal novembre del 1804 al maggio del 1805, per la consacrazione e l’incoronazione di Napoleone come imperatore. Poi, dal giugno 1812 al gennaio 1814, stavolta prigioniero a Fontainebleau del sovrano, che ordina di liberarlo quando ormai le sue fortune appaiono declinanti.

Il lungo viaggio di ritorno a Roma del papa «si tramutò in un trionfo: il carisma papale si impose nelle tappe successive del lento procedere attraverso il Midi della Francia. Folle sbandate in seguito al crollo dell’impero e avide di pace si accalcarono al passaggio dell’anziano pontefice», ha scritto lo storico Philippe Boutry. Una figura in precedenza lontana come quella del pontefice, diviene in queste circostanze del tutto inattese – martire Pio VI, reduce da una lunga e ingiusta prigionia Pio VII – visibile e familiare a moltissimi.

Papato rafforzato

I drammatici cambiamenti successivi al periodo rivoluzionario e poi napoleonico portano a ben tre soppressioni del potere temporale in mezzo secolo: nel 1798 con la proclamazione della prima Repubblica romana, nel 1809 con l’annessione dello stato papale all’impero e nel 1849 con la seconda Repubblica romana, debellata dalle armi francesi di Napoleone III. Non a caso, dunque, dal 1808 il potere temporale inizia a essere considerato dal papa garanzia dell’indipendenza del potere spirituale.

Peraltro senza troppe illusioni, se già alla fine degli anni venti un prelato reazionario come Tommaso Bernetti, segretario di stato a due riprese morto nel 1852, ripeteva che se fosse vissuto a lungo avrebbe visto la fine del potere temporale. Come puntualmente avviene. Ad accelerarne il crollo – segnato nel 1870 dalla presa di Roma – è infatti il processo che nel giro di un quindicennio porta all’unificazione italiana.

Con l’effetto, ora confermato da un documentatissimo studio (Arthur Hérisson, Pour le pape-roi, École Française de Rome), di accrescere la devozione dei cattolici nei confronti del pontefice. Questa nuova devozione – costruita da importanti testi – si manifesta soprattutto in due modi: con le armi degli zuavi a difesa del papa, sia pure senza risultati, e con il sostegno finanziario, che proprio allora nasce come Obolo di san Pietro, destinato invece a sviluppi duraturi e importanti per le finanze della Santa sede.

Il periodo analizzato da Hérisson è quello decisivo: tra il 1856, quando la «questione romana» grazie a Cavour diventa un affare internazionale, e il 1871, anno in cui il regno d’Italia la considera risolta con la legge delle Guarentigie, respinta però da Pio IX. Ma gli esiti di queste vicende vanno oltre il cattolicesimo francese perché contribuiscono alla trasformazione moderna del papato e all’immagine del pontefice, che già la rivoluzione francese e Napoleone avevano reso familiare ai fedeli, e che con papa Mastai diviene popolarissima.

Napoleone III, figura centrale in questa storia, vuole assicurarsi l’appoggio dei cattolici francesi ma resta diffidente nei confronti del «governo dei preti», fino a ordinare il progressivo ritiro delle truppe francesi a difesa di Roma. Di fronte però alla prospettiva di volontari che, soprattutto dalla Francia, possano rinforzare l’esercito pontificio, a dimostrarsi poco convinti sono la Segreteria di stato e lo stesso Pio IX.

Tra zuavi e legionari di Antibes a mobilitarsi comunque per il papa e a impegnarsi in combattimenti contro gli italiani sono ben settemila volontari francesi, aristocratici ma in buona parte «provenienti dalle classi popolari». Anche se, oltre il mito, la vicenda di questi soldati si avvicina di più all’attesa descritta da Dino Buzzati nel Deserto dei tartari che al protagonista di Olderico, lo zuavo pontificio, romanzo d’appendice del gesuita Antonio Bresciani.

La nascita dell’Obolo

Ben più importante e gravida di sviluppi è nel 1859 la nascita dell’Obolo di san Pietro, preceduto storicamente nell’Inghilterra medievale dall’offerta al papa di una tassa ecclesiastica – i denarii sancti Petri, in inglese Peter’s Pence – abolita da Enrico VIII nel 1534. In Francia alla raccolta partecipano tutte le classi sociali: in particolare le donne, a volte distinguendosi dai mariti, ma più in generale, il laicato che inizia ad affermarsi.

In definitiva, a condensarsi in Francia a favore del papato è tutto un «movimento verso Roma», come già nel 1849 lo definisce il vescovo di Amiens. Intransigente ma che «non esita a modernizzare la sua azione», sfruttando a fondo le risorse dei tempi nuovi. E se paradossalmente è il dogma dell’infallibilità papale definito nel 1870 dal concilio Vaticano I a frenare gli eccessi massimalisti, è il papato nel suo complesso a uscire rafforzato grazie proprio al cattolicesimo francese.

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