Incontrando a porte chiuse i vescovi ucraini di rito bizantino riuniti nel loro sinodo papa Bergoglio, dopo aver ascoltato a lungo, ha scandito: «Vi assicuro che sono con voi». A riferire le parole di Francesco è stato in una conferenza stampa l’arcivescovo Svjatoslav Ševčuk, ma il primate greco-cattolico ha aggiunto che ora tocca ai vescovi il compito di convincere i fedeli.

Un’impresa non facile – ha riconosciuto – perché in Ucraina la popolarità del pontefice, ritenuto filorusso, è svanita: dal 45 per cento prima dell’aggressione scatenata da Putin è scesa al 6, se non addirittura al 3 per cento.

Il sinodo della gerarchia cattolica ucraina orientale, appena concluso a Roma, si è svolto in giorni complicati. Non solo per la guerra, ma per l’accavallarsi di notizie convulse, spesso frutto di disinformazione: flusso da tempo contraddittorio, che mostra come si tratti di un’arma impiegata da molte parti. A questa si aggiunge la minaccia nucleare, a intermittenza ventilata irresponsabilmente dai russi.

Non a caso Boris Gudziak, arcivescovo ucraino di Philadelphia, ha ricordato come nel 1994 l’Ucraina abbia rinunciato al gigantesco arsenale atomico – il terzo nel mondo – dispiegato dai sovietici sul suo territorio. L’accordo di Budapest, firmato da Clinton, Élcin e dall’ucraino Kravčuk, prevedeva infatti che i confini del paese ormai indipendente sarebbero stati rispettati: si è visto come.

Sullo sfondo, nel quadro dei tentativi per risolvere la guerra indirizzandola su binari diplomatici, si muove la missione umanitaria vaticana; senza neppure un minimo risultato, nonostante i continui appelli del pontefice: oltre duecento dall’inizio dell’invasione. Ma in questo contesto Francesco ha aggiunto, improvvisando, nuove ammirate dichiarazioni per la «grande Russia dei santi, dei re, la grande Russia di Pietro I, Caterina II»: parole incaute, che lo stesso pontefice è stato costretto a rettificare rispondendo ai giornalisti sul volo di ritorno dalla Mongolia.

Mentre a Roma si concludeva il sinodo ucraino, da San Pietroburgo è tornato a parlare Kirill. Il patriarca di Mosca ha rievocato il trasferimento delle reliquie, voluto il 12 settembre 1724 proprio da Pietro il Grande, del principe medievale Aleksandr Nevskij – il vincitore degli svedesi e dei cavalieri teutonici, canonizzato nel 1547 ed esaltato nel 1938 dal film di Ėjzenštejn – e ha detto che la Russia ha il compito di «uscire vittoriosa dalla lotta che le forze del male stanno scatenando contro di noi», non mancando di esaltare il «nostro meraviglioso reggimento di sacerdoti, che lavorano e, purtroppo, muoiono, ma non lasciano la prima linea».

Due giorni prima a Berlino, inaugurando l’incontro internazionale per la pace di Sant’Egidio, il presidente federale Steinmeier era stato chiarissimo: «Né l’Ucraina né i paesi che la sostengono rifiutano la pace. È la Russia che la rifiuta. È Putin ad avere la scelta: se ritira il suo esercito, la guerra cessa. Se l’Ucraina cessa di difendersi, l’Ucraina non esisterà più. È questo il motivo per il quale noi europei, inclusi noi tedeschi, sosteniamo l’Ucraina – anche con le armi». Come ha confermato anche il cancelliere Scholz concludendo l’incontro.

La voce di Halík

Alle voci dei politici tedeschi si è aggiunta, quasi in simultanea e ancora più aspra, quella di un celebre filosofo ceco, il prete cattolico Tomáš Halík, che ha parlato all’assemblea della Federazione mondiale luterana riunita a Cracovia. In un intervento di largo respiro e di impianto teologico solido – rilanciato per intero dal «Tablet» – l’antico dissidente, poi collaboratore del presidente Havel, ha parlato anche dell’aggressione russa, affermando che «il tentato genocidio del popolo ucraino è parte del piano della Russia di ristabilire il suo impero in espansione»: disegno che ha paragonato alla strategia hitleriana.

Halík ha denunciato l’uso cinico, da parte di Putin, del messianismo religioso russo e dei «capi corrotti» della chiesa ortodossa al fine di raggiungere i suoi scopi: «L’intera comunità cristiana ecumenica non può essere cieca e indifferente di fronte a questo duplice scandalo» – ha detto – perché «la nostalgia per il passato, per il matrimonio della chiesa e dello stato, priva la chiesa del suo futuro». E se al tempo del comunismo alla chiesa è stata necessaria la «virtù della fortezza per difendersi», ora vi è bisogno della «virtù della saggezza, l’arte del discernimento spirituale».

Alle ragioni cristiane si è richiamato nella conferenza stampa conclusiva del sinodo ucraino anche Ševčuk, rispondendo con abilità alle domande dei giornalisti sul rapporto della chiesa greco-cattolica con Roma: «La roccia di Pietro rimane, politica e diplomazia vanno e vengono». Un’affermazione con la quale ha voluto sottolineare l’importanza dei legami con la Santa sede, ovviamente fondamentale e che supera le contingenze.

Al tempo stesso l’attaccamento a Roma non nasconde l’aspirazione degli ucraini di rito bizantino – che dal 1963 sono un arcivescovato «maggiore» – a divenire patriarcato, considerato uno sviluppo naturale e sempre negato dai papi per motivi ecumenici: «Questo è un sinodo patriarcale» ha osservato il prelato cinquantatreenne.

Ad avanzare la richiesta di costituire il patriarcato ucraino fu il metropolita Josyf Slipyj nel suo primo discorso al concilio, nel 1963. All’inizio dell’anno il settantunenne prelato era stato liberato – dopo diciotto anni di prigionia nelle carceri e nei campi sovietici – su richiesta di Giovanni XXIII e di Kennedy, e la sua figura eroica aveva ispirato l’immaginario papa ucraino nel romanzo The Shoes of the Fisherman (divenuto in italiano Nei panni di Pietro e poi portato al cinema da Anthony Quinn) di Morris West, uscito proprio il giorno in cui moriva Roncalli.

Pochi mesi più tardi, alla fine del 1963, Paolo VI nominò Slipyj arcivescovo «maggiore» e due anni dopo lo creò cardinale nel suo primo concistoro. Ma per le opposizioni del Cremlino e nella stessa curia romana, diffidente di fronte a ogni autonomia, papa Montini non costituì il patriarcato, «con sincera tristezza» scriveva nel 1971 allo stesso prelato, come si legge nelle sue Memorie, pubblicate postume in italiano, con molti documenti, dall’Università cattolica ucraina nel 2018.

Uno stato, una Chiesa

Le vicende drammatiche dei greco-cattolici ucraini, incorporati a forza dai sovietici nella chiesa ortodossa e costretti per decenni alla clandestinità, sono inseparabili da quelle del paese. Come è emerso da cenni nella conferenza stampa: nonostante la guerra e le atrocità, «nessuno è morto di freddo o di fame» ha detto Ševčuk, alludendo probabilmente alla carestia dell’Holodomor provocata da Stalin tra il 1932 e il 1933 soprattutto ai danni degli ucraini con un numero spaventoso di vittime, stimato in alcuni milioni (dai tre ai sette).

Nell’incontro con i giornalisti, Ševčuk e Gudziak hanno però tenuto a distinguersi da ogni dimensione politica. Com’è emerso quando, interrogati sulle dichiarazioni del primo consigliere di Zelenskyi sull’atteggiamento filorusso del papa, hanno detto di aver saputo dai diplomatici ucraini a Roma che si trattava di una «opinione privata».

Se la guerra ha provocato nuove divisioni, anche all’interno del mondo ortodosso, sempre più frantumato, al contrario vanno ricuciti i legami tra i cristiani. Questo almeno è il tentativo di un convegno che questa settimana ricorderà il centenario della nascita di un pioniere del dialogo tra cattolici e ortodossi russi, il prete trentino Romano Scalfi. «Noi dobbiamo tendere con tutte le forze – scriveva nel 1925 il filosofo Nikolaj Berdjaev – alla rinascita della Russia, ma alla sua nascita nella verità di Cristo. Sarebbe una follia restaurare l’ingiustizia per la quale stiamo pagando il fio».

Per quali vie, ardue e misteriose, sia possibile lo mostra ora un bellissimo libro che racconta le vicende parallele di Sergij Bulgakov e di Julija Rejtlinger (Una vita in dialogo, Russia Cristiana), divenuta suor Ioanna. Con memorie e lettere, dalla Crimea – sconvolta dalla rivoluzione e dalla guerra civile – a Varsavia, Praga, Parigi, dove il teologo muore nel 1944, fino al ritorno in Unione sovietica della monaca artista.

Il contesto è drammatico ma lo sfondo spirituale è quello dell’Apocalisse di san Giovanni, che Rejtlinger dipinge in affreschi e icone. «Penso sempre più – scrive suor Ioanna – all’edificazione del Regno di Dio. Si trova in ogni passo della nostra vita, nella nostra incessante scelta tra il bene e il male, nel nostro agire senza sosta per questa scelta».

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