Borges ha ripetuto più volte, ad esempio nelle lezioni tenute a Harvard su L’artigianato del verso (1968–1969), che la letteratura non è altro che un’immensa serie di variazioni su tre grandi temi: l’amore, il viaggio e la guerra. Anche quando hanno pretese di originalità, gli scrittori non farebbero dunque altro che ripetere sempre le stesse storie: chi meglio, come Omero o Tolstoj, e chi peggio, come tutti gli altri.

Lo stesso si potrebbe dire per le storie di fantascienza spaziale, che hanno avuto i loro capolavori omerici nei due film 2001: Odissea nello spazio (1968) di Stanley Kubrick e Solaris (1972) di Andrej Tarkovskij, basati sui due omonimi romanzi di Arthur Clarke e Stanislav Lem. Quasi tutte le altre storie di viaggi interplanetari, a parte le eccezioni tolstojane quali Interstellar (2014) di Christopher Nolan e Kip Thorne, sono anch’esse ripetizioni e variazioni degli stessi temi, quando non addirittura rifacimenti di quegli stessi film, come Solaris (1992) di Steven Soderbergh.

Lo psicologo-astronauta di quest’ultimo remake era interpretato da George Clooney, che è tornato sul genere come attore e regista in Il cielo di mezzanotte (2000), appena uscito su Netflix. La storia è ambientata nel 2049 sulla Terra, tre settimane dopo che un’imprecisata catastrofe ambientale ha decimato la popolazione del pianeta, e le radiazioni l’hanno reso inabitabile ai sopravvissuti. Nel frattempo l’astronave Etere sta rientrando a casa dopo una missione di due anni che ha confermato l’abitabilità del satellite K-23 di Giove, scoperto dall’astrofisico interpretato da Clooney. Quest’ultimo cerca dunque disperatamente di contattare l’equipaggio, affinché inverta la rotta del rientro a Terra e torni in salvo sul più fortunato satellite.

Alla ricerca di esopianeti

Il nome K-23 è un riferimento alla sonda Keplero, così chiamata in ricordo delle fantastiche divagazioni del Sogno sognato e scritto dallo scienziato agli inizi del Seicento, e considerato da Borges «il primo vero racconto di fantascienza». Mentre Keplero analizzava in teoria la possibilità e l’esistenza della vita extraterrestre, la sonda si dedica in pratica alla ricerca di esopianeti simili alla Terra, in orbita attorno a stelle simili al Sole: in particolare, situati nella fascia abitabile del sistema, e dotati di atmosfera e acqua.

La sonda è stata lanciata in orbita attorno al Sole nel 2009. Il meccanismo di puntamento del telescopio si è rotto nel 2013, ma la missione è continuata comunque, e proprio in quell’anno ha fornito gli esaltanti dati relativi al sistema planetario K-90, situato a circa 2.500 anni luce da noi e molto simile a quello solare: è infatti composto da sette pianeti, che vanno dai rocciosi, simili alla Terra e Marte, ai giganti gassosi, simili a Giove e Saturno.

In tutto, la sonda Keplero ha ormai osservato centinaia di migliaia di stelle, scoprendo migliaia di esopianeti: alcuni molto simili alla Terra, e altri completamente diversi. Come le super Terre, o nane gassose, che hanno masse intermedie tra la Terra e Giove. O i Giove caldi, che hanno masse paragonabili a quella di Giove, ma orbitano molto più vicini alle proprie stelle. O i pianeti circumbinari, che orbitano attorno a due stelle, invece che a una sola.

A causa della profusione di esopianeti scoperti dalla sonda Keplero, i loro nomi sono semplicemente indicati dalla lettera K seguita dal numero progressivo di scoprimento: come il K-23 del film di Clooney, appunto, che però non è un reale pianeta di un altro sistema solare, come il suo vero omonimo, ma un immaginario satellite di Giove. Alla fine del film K-23 viene idillicamente descritto come avente paesaggi degni del Colorado, un’aria frizzante odorosa di pino, un cielo vivacemente colorato di arancio e porpora, e la vista di un Giove enorme e quasi a portata di mano.

Ovviamente, nessuno dei satelliti di Giove è veramente così, eccetto che per l’effettiva grandezza apparente del pianeta. D’altronde, noi siamo abituati a vedere nel nostro cielo una piccola Luna, ma nel cielo della Luna la Terra appare molto più grande, come aveva previsto il Sogno (1634) di Keplero, e nel cielo dei satelliti di Giove e Saturno i due pianeti incombono enormi, come aveva invece previsto L’osservatore cosmico (1698) di Christian Huygens.

I satelliti di Giove sono però gelati, perché la loro distanza dal Sole li pone ben al di fuori della fascia abitabile dall’uomo. Nel film il problema è risolto con un vago accenno a una fonte di calore interna, invece che esterna: la cosa non è completamente assurda, visto che le forti forze di marea causate dalla gravitazione di un pianeta gigante come Giove producono effettivamente un’enorme attività vulcanica in Io, il satellite più vicino al pianeta. Ma ciò nonostante la sua temperatura si mantiene tra i 150 e i 200 gradi sotto lo zero, la sua inquinata atmosfera puzza di zolfo bruciato, e il suo infernale paesaggio assomiglia più alle solfatare di Yellowstone che ai boschi del Colorado.

In altre parole, se si pretende di avere un pianeta abitabile nel Sistema Solare al di fuori della fascia abitabile si finge di fare fantascienza, ma in realtà si indulge nel fantasy. Per trovare pianeti anche solo vagamente simili alla Terra bisogna andare in altri Sistemi Solari, ma allora sorge il problema di come arrivarci. Già la stella più vicina a noi, che si chiama Proxima Centauri, dista quattro anni luce: per andarci e tornare, anche viaggiando all’impossibile velocità della luce, ci vorrebbero comunque otto anni.

Nel 2016 si è scoperto che questa stella ha effettivamente un pianeta. Si trova nella fascia abitabile del suo sistema solare, ma è troppo vicino alla sua stella, a soli sette milioni di chilometri, e le gira molto velocemente attorno, in soli undici giorni. È molto diverso dalla Terra, perché riceve molti più raggi X e molte meno radiazioni da Proxima Centauri, e quasi tutte nell’infrarosso.

Ma la curiosità di vederlo rimane, e il miliardario russo Yuri Milner ha finanziato un avveniristico progetto per mandarci una flotta di sonde miniaturizzate, sospinte da raggi laser e viaggianti a un quinto della velocità della luce, che dovrebbero arrivare ad avvistare il pianeta in circa vent’anni.

La fantascienza dei fisici

Chi vivrà, vedrà. Ma nel frattempo questa è la vera fantascienza dei nostri giorni, ed è stata premiata con il premio Nobel: non per la letteratura, però, ma per la fisica! Il premio fu assegnato nel 2019 a Michel Mayor e Didier Queloz, «Per la scoperta del primo esopianeta orbitante attorno a una stella simile al Sole». La stella era 51 Pegasi, nella costellazione di Pegaso, a circa 50 anni luce da noi. Il pianeta venne chiamato 51 Pegasi b e soprannominato Bellerofonte, in onore dell’eroe greco che cavalcava il cavallo alato Pegaso. La scoperta avvenne nel 1995, e mostrò che un pianeta gassoso grande quanto la metà di Giove, poteva orbitare attorno alla propria stella a una distanza minore di quella di Mercurio dal Sole, e in soli quattro giorni.

Ed è Queloz in persona ad apparire nel Prologo della miniserie Mondi alieni (2020) di Netflix, che costituisce uno dei migliori esempi in circolazione di fantascienza informata. Gli spettatori possono dunque sentire dalla sua viva voce una miniconferenza sugli esopianeti, tenuta nella spettacolare scenografia dell’osservatorio europeo Paranal in Cile, situato su un picco di 2.600 metri nel deserto di Acatama. Queloz racconta come ha scoperto il primo esopianeta a soli ventott’anni, quand’era ancora un dottorando, e illustra l’odierna profusione degli esopianeti oggi noti mediante una mappa luminosa in scala uno a un miliardo di miliardi, un metro della quale corrisponde a venti anni luce nell’universo.

Le quattro puntate della miniserie mostrano le simulazioni in computer grafica dei possibili abitanti di alcuni di questi mondi alieni. Naturalmente, per immaginarci come potrebbero essere gli altri esseri viventi nel cosmo non possiamo che ispirarci agli unici che conosciamo sulla Terra, che però non devono essere necessariamente gli omuncoli ai quali si limitano i registi di molti mezzi ma poca fantasia, quali lo Steven Spielberg di E.T. l’extraterrestre (1982) e il James Cameron di Avatar (2009), e possono invece essere organismi viventi in condizioni estreme.

Nella seconda puntata della miniserie, ad esempio, l’esopianeta si chiama Giano ed è in rotazione sincrona rispetto alla propria stella: cioè, impiega esattamente lo stesso tempo sia a compiere un’orbita attorno alla stella, sia a fare un giro attorno a sé stesso. Lungi dall’essere un evento straordinario, questa è in realtà una condizione naturale a cui tendono i corpi celesti che ruotano attorno ad altri molto più grandi di loro: la Luna l’ha già raggiunta nel suo moto attorno alla Terra, e col tempo anche la Terra la raggiungerà girando attorno al Sole.

Esattamente come avviene per la Luna, anche Giano ha una faccia sempre rivolta verso la stella, e un’altra faccia rivolta in direzione opposta: di qui la scelta del suo nome. Su una faccia c’è sempre un caldo torrido, e sull’altra un freddo glaciale, mentre un confine circolare di transizione separa una perenne alba da un perenne tramonto.

Anche indipendentemente dall’esistenza o meno di un’atmosfera, non c’è dunque nessuna speranza di vita per esseri come noi, ma possono invece prosperare organismi come i robusti termofili che vivono nel clima torrido dell’etiope Depressione di Danakil, la zona più calda del pianeta, o i mocciosi mucottiti che sopravvivono al buio nella messicana Grotta di Villa Luz, nutrendosi di acido solforico.

Guardando una miniserie come Mondi alieni, o leggendo un libro come Alieni (2016) di Jim Al-Khalili, scopriamo quanto provinciale e miope sia la concezione della vita che ha la maggior parte di noi, e quanto avesse ragione Primo Levi a dichiarare, nel suo Dialogo (1984) con Tullio Regge: «La fantascienza che va in commercio è marginale, un cascame: la vera fantascienza è quella che corre nella repubblica dei fisici, scritta dai fisici per i fisici».

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