Quando il filosofo accademico, che vende sì e no mille copie dei suoi saggi, e spesso a lettori non proprio volontari, come gli studenti dei suoi corsi, vede comparire nella classifica dei libri più venduti un libro di filosofia (è il caso di Prendila con filosofia di Maura Gancitano e Andrea Colamedici, per settimane in classifica), la prima reazione non può che essere di disappunto e di invidia. In romanesco si direbbe che rosica. Poi però va a vedere, constata che due volte su tre si tratta di un libro divulgativo, facile, popolare e tira un sospiro di sollievo, dicendo a sé stesso che la filosofia è un’altra cosa.

Non è detto che sia una reazione saggia, perché la filosofia facile può essere molte cose diverse, e un filosofo dovrebbe innanzitutto saper distinguere. Per esempio in Italia abbiamo una tradizione di filosofia pop (c’è anche il festival di Popsophia a cura di Lucrezia Ercoli), che non è affatto disprezzabile, consistendo essenzialmente nel riflettere sui fenomeni della cultura popolare e di massa con gli strumenti della filosofia. E questa è una cosa buona e giusta, come ci ha insegnato Umberto Eco, che una volta ebbe a dire che «nulla è troppo vile per un uomo di pensiero». Certo, magari Eco non avrebbe scritto una Pornosophia, cioè una filosofia del porno come ha fatto Simone Regazzoni, perché Eco rivendicava il diritto al sesso dal vero (è il titolo di un suo articolo in Il costume di casa), ma qui si vede la differenza che passa tra un moderno e un postmoderno, mentre una Filosofia di Lost (altro titolo di Regazzoni) Eco avrebbe potuto tranquillamente scriverla.

C’è però un genere di filosofia popolare rispetto alla quale il filosofo non ha torto a storcere il naso. Si tratta di quei manuali che presentano la filosofia come scuola di vita, medicina dell’anima, viatico per una vita felice. Leggetemi e vi insegnerò come si fa a vivere bene.

Qui il filosofo (e per la verità non solo lui) comincia a sentire odore di turlupinatura. È un po’ come quei manuali che un tempo piacevano molto agli editori, e che si intitolavano Capire la musica o Saper vedere la pittura (scelgo due titoli di uno studioso egregio, Matteo Marangoni, perché ce l’ho col genere, non con gli autori). E uno si chiedeva: ma, scusate, se per capire la musica o saper giudicare un quadro bastasse leggere duecento pagine, allora quelli che ci mettono una vita, passando il loro tempo nei musei o nelle sale da concerto, sono forse degli imbecilli? Perfino quando una persona compra un corso di inglese sa che non sta comprando l’Inglese, ma un po’ di lezioni; e invece uno che compra un libro sulla felicità (che Gancitano e Colamedici chiamano, un po’ furbescamente, “fioritura personale”) starebbe comprando il modo di essere felice?

Decrescita esistenziale

Comunque stiamo al gioco. Il primo passo verso la felicità (pardon, la fioritura personale) consisterebbe nel sottrarsi all’imperativo sociale che ci vuole sempre attivi, efficienti, performativi. Attuare una sorta di decrescita esistenziale alla Latouche che finalmente ci liberi dalla pressione sotto cui viviamo, impegnati come siamo perpetuamente a “produrre, lavorare, accumulare sempre più ricchezze”. E qui che chiediamo in quale ambiente fortunato vivano i nostri consiglieri filosofici. Perché invero di gente che sia occupatissima ad accumulare ricchezze ne conosciamo pochina, e quella pochina di solito gode anche di un invidiabile provvista di tempo a disposizione per fare altro. Di solito la gente è impegnata a procurarsi mezzi per vivere o addirittura sopravvivere.

Ci immaginiamo Gancitano e Colamedici avvicinarsi alla madre che si fa in quattro tra lavoro e figli, o al padre separato costretto a inventarsi un secondo lavoro per mantenere uno standard di vita decente e suggerirgli di smettere di agitarsi per accumulare ricchezze. Immaginiamo che più che un consiglio filosofico i suddetti avrebbero l’impressione di ricevere una presa per i fondelli, e manderebbero i consiglieri soavemente a quel paese. Probabilmente però i nostri consiglieri filosofici si consolerebbero pensando che lo stesso accadeva anche ai filosofi dell’antichità, da Socrate ai cinici, spesso considerati dai loro contemporanei come grandi seccatori. Perché questa è un’altra caratteristica dei manuali filosofici sulla felicità: sembra che gli unici filosofi che hanno avuto qualcosa da dire sulla saggezza della vita siano gli antichi, anzi soprattutto cinici, stoici ed epicurei. A pensarci bene è strano, perché poi ci sono stati Montaigne, Pascal, i moralisti francesi, Baltasar Gracián, Schopenhauer, Alain. Ma no, a contare sono sempre e solo i greci delle scuole post-socratiche.

E la colpa questa volta è di un filosofo accademico, Pierre Hadot, che dopo aver scritto libri eccellenti sul neoplatonismo e su Plotino si è dato a dimostrare che per gli antichi filosofi l’essenziale era insegnare a vivere bene, e non attraverso la riflessione ma mediante una filosofia concepita come esercizio spirituale e scuola di vita. Dimenticando che la filosofia è innanzi tutto esercizio della ragione, non dello spirito: valutazione razionale delle circostanze e dei problemi. Non tenere presente questo significa aprire la strada a esiti abbastanza paradossali. Per esempio in Prendila con filosofia si può leggere addirittura una tirata contro la ragione, un «mezzo che ti separa e ti fa sentire differente dal mondo, altro dalla natura: ragionare è un movimento verso l’esterno. Il problema è che uscendone si sta male, perché si perde il piacere naturale di essere uno col mondo».

Peccato che se la filosofia rinuncia a guidarci con l’analisi razionale (il che non vuol dire, beninteso, che razionale sia la vita: «nessun segno di essere poco savio e poco filosofo – diceva Leopardi – che voler savia e filosofica tutta la vita») diventa un’altra cosa: supporto psicologico, nel migliore dei casi, suggestione, illusione o succedaneo della religione negli altri.

Anche qui Hadot ha più di una colpa, perché ha mescolato alla sana filosofia antica un concetto cristiano, anzi gesuitico, che c’entra come i cavoli a merenda, quello di esercizio spirituale. Gli esercizi spirituali lasciamoli, per favore, a Sant’Ignazio di Loyola. Altrimenti accade come nel libro di Gancitano e Colamedici, dove abbiamo incontrato (citiamo alla rinfusa): vocazione; chiamata; esame di coscienza; pellegrinaggio; esperienza mistica; forza invisibile che ci attrae; attendere un segno; ascoltare una voce, e addirittura, neanche fossimo nella Trappa, «ricordati che devi morire». Ma se uno deve sentire queste cose, tanto vale che vada a confessarsi, che almeno guadagna la vita eterna.

Filosofia per pochi

Sappiamo che la posizione che sosteniamo suscita di solito un’obiezione che pare invincibile. Tutti i partigiani della filosofia come scuola di vita, manuale di felicità personale, sono pronti a farci osservare che se la filosofia rinuncia a indirizzare praticamente le nostre vite, a farsi scuola di saggezza morale, e diventa solo analisi razionale, elucubrazione teorica, finisce per non servire a niente e soprattutto per non essere letta da nessuno, se non dai filosofi stessi.

E in effetti è difficile pensare che opere come la Critica della ragion pura di Kant o la Scienza della logica di Hegel, ma anche come le Ricerche sull’intelletto umano di Hume possano essere lette da moltitudini. Anche se uscissero domani, non entrerebbero nelle classifiche, nemmeno della saggistica. Tra l’altro il libro di Hume si apre proprio con una riflessione sulla filosofia facile e su quella difficile, solo che per lui la filosofia facile era quella di Cicerone, difficile quella di Aristotele: ogni epoca ha il facile e il difficile che si merita.

Eppure, se guardiamo a come sono andate storicamente le cose, ci accorgiamo che la filosofia seria, la filosofia difficile, è stata sempre letta da pochi, ma proprio questo è stato il mezzo attraverso il quale ha esercitato la sua efficacia. Kant è stato letto da generazioni di scienziati (specie in Germania); Hegel è stato letto da politici, economisti, storici, sociologi. E non è solo quello che avveniva ieri. Pensiamo a una figura come Derrida, filosofo difficile per eccellenza, ma che ha influenzato critici letterari psicanalisti, giuristi, massmediologi.

È così che funziona: il filosofo dell’estetica parla, se ci riesce, a critici d’arte, architetti, paesaggisti; il filosofo politico a giuristi, politici, economisti. E così via per le altre branche della filosofia.

Tutti i filosofi, dunque, possono servire, immediatamente, a un numero molto ristretto di persone (anche se magari poi, attraverso quel piccolo numero, possono avere un’influenza anche grande). La filosofia difficile, senza dubbio, serve a pochi. Ma la filosofia per tutti, temiamo, non serve proprio a nessuno.

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