Tra gli addetti si parla parecchio del fingere e del non fingere in letteratura: i lettori, pare, ma soprattutto gli scrittori preferiscono da un po’ di tempo le “storie vere” a quelle inventate – l’ultimo Strega è stato vinto da una scrittrice non professionista che ha raccontato la pena e il coraggio del proprio destino.

Ma anche i supposti professionisti puntano sempre più spesso sulle biografie o le autobiografie: le vite di donne e uomini illustri, negli àmbiti più svariati, d’ogni tempo e d’ogni paese; oppure i propri guai, le proprie traversie, o quelle della madre, dei bisnonni, degli amici più stretti. La non-letteratura, si arriva a dire, ha più udienza e più chances editoriali della letteratura; il pubblico allenato sui social vuole sentire il fiato della vita vissuta, il timbro della verità. Ma che cos’è la verità? E cos’è il professionismo in un territorio così aperto ai venti come la fantasia?

La letteratura, credo, è semplicemente ciò che in un certo momento culturale viene chiamato letteratura; i tentativi di definirla con parametri assoluti, o almeno costanti, è sempre fallito – se ora questi parametri stessero rapidamente cambiando sotto gli occhi di noi anziani, che ci sarebbe di scandaloso? Quindi non entrerò nella selva inestricabile, proverò ad affrontare il problema di sbieco; da un modo verbale (il condizionale), ripartendo scolasticamente dalle origini.

Sarebbe bello

In uno dei passi più famosi della Poetica, Aristotele distingue tra il lavoro dello storico e del poeta: compito dello storico è raccontare ciò che è accaduto, mentre spetta al poeta «non narrare i fatti accaduti ma quelli che potrebbero accadere» (poi aggiunge «secondo il verosimile o il necessario», e su questo tornerò).

Il modo condizionale è il padre della fiction – di fiction sono piene le librerie, per non parlare delle serie televisive. Ma con un certo stupore mi sono trovato a constatare che la maggior parte delle fiction di maggior successo racconta ciò che non può accadere: o che non può accadere per ora (avere un “doppio” virtuale, usufruire del teletrasporto) o che non potrà accadere mai (trasformarsi in un licantropo, essere un vampiro) – tutta quell’ampia gamma di soprannaturale che comprende la fiaba e la fantascienza, il racconto fantastico e l’horror.

Il livello non è solo quello basso dell’evasione e dell’intrattenimento, se annovera grandi scrittori come Philip K Dick o grandi registi come Steven Spielberg. Qui il basico condizionale aristotelico subisce una prima torsione: la fiction racconta quel che sarebbe bello (o eccitante, o pauroso) che potesse accadere.

Lo schermo della verità

Ma la torsione che più mi preoccupa è un’altra: ho l’impressione che oggi molte storie inventate ci vogliano raccontare non quel che potrebbe ma quel che dovrebbe accadere, quel che sarebbe giusto che accadesse. È la vasta pletora dei racconti ben intenzionati: i migranti osservati unicamente e pietosamente come vittime, le donne che hanno saputo vincere una soverchiante quantità di ostacoli, i gay felici dopo aver preso coscienza di sé. (Simili in questo a certe “storie vere” che hanno un evidente retrogusto di esemplarità, parlano a nuora perché suocera intenda).

Qui faccio più fatica a indicare esempi che superino il livello dell’intrattenimento edificante; se devo dirla tutta, ho il sospetto che in questi casi la voga della “storia vera”, della cruda realtà, funzioni come schermo retorico.

Provo a spiegarmi facendo un salto indietro. Negli anni Trenta in Italia il fascismo oscillava tra due forme di retorica: il tronfio nazionalismo da una parte e dall’altra le edulcorate commedie sentimentali dette “dei telefoni bianchi” (Assia Noris, le mille lire al mese, gli uomini che mascalzoni e tutta la compagnia). Il primo neorealismo arrivò a spazzar via tutto il ciarpame, fece cadere il sipario e mostrò la miseria – la verità di un paese per demistificare le bugie precedenti e anche quelle dei nuovi padroni. È nato nu criaturo, è nato niro.

Ma adesso? Adesso che la tecnologia sembra magia, e il virtuale è più attraente del reale, adesso che la de-realizzazione di ogni conflitto è ciò su cui il Potere conta per perpetuarsi, tutta questa “passione della verità” non rischia di apparire essa stessa come uno schermo? Di essere sostanzialmente un alibi timido, una fuga dalle strutture profonde su cui si basa il vero dominio? Non sono i nuovi telefoni bianchi della coscienza civile?

Il modo del diavolo

Il romanzo realista otto-novecentesco era un campione, e un equilibrista, della mezza distanza: partiva spesso da un “fatto vero” attinto dalla cronaca dei giornali per narrare il sogno, l’ambizione dell’assoluto, la riflessione sulla Storia. Per dire quel che scorreva nelle vene della società (che la società lo sapesse o meno), ma anche quel che formicolava negli inconsci individuali – quello che potrebbe saltar fuori da me, se non mi censurassi.

Il sesso consumato con una bambina, la trasformazione di sé stessi in un immondo insetto, gli omosessuali razza maledetta come gli ebrei. Tra la cronaca e un senso superiore c’era un ponte, un progetto che univa le due dimensioni – era la borghesia nella sua parabola di crescita apogeo e decadenza, era il progresso che poteva pure mostrare le sue crepe ma credeva comunque nella possibilità di rinnovarsi e proprio per questo non temeva le epifanie, le locomotive sfidavano il buon Dio.

Ora il ponte è crollato: quel che accade di decisivo è nascosto tra le nubi e quaggiù restano frammenti di vissuto che si sbriciolano, relitti di cronaca senza direzione – il senso bisognerebbe andarlo a cercare dove passa il vero dominio, le mosche del nuovo capitale; ma bisognerebbe esserci dentro, conoscerne le dinamiche aziendali come Volponi conosceva quelle della Olivetti e della Fiat. Le illusioni perdute nella Silicon Valley.

Io, che non so niente ma a quel vecchio mondo appartengo per sanzione d’anagrafe, posso solo pensare al condizionale come al modo verbale della tentazione, ossia del Diavolo («forse potresti, magari acconsentirebbe…»).

Tornare a immaginare

Perché Aristotele aggiunge al suo condizionale “secondo il verosimile o il necessario”? Perché esige che la poesia (che nel suo caso è epica e soprattutto teatrale) coinvolga l’uditore o lo spettatore, e per far questo dev’essere credibile, senza identificazione niente catarsi; ma in più il testo dev’essere dotato di una specie di super-vista, su come stanno le cose e su come non possono non evolvere necessariamente secondo logica storica o psichica – deve insomma partire dal “fatto” (che nel suo caso è il mito) e dare a quel fatto un valore universale; se no come sarebbe riuscito Sofocle a suggestionare Freud?

Qui tutta la faccenda va riletta tenendo conto di un ulteriore elemento. Come mai certe “storie vere” le sentiamo come universali e altre no? Non tutte le non-fiction sono uguali. Conta molto il demone dell’analogia: un noir dalla trama al limite della credibilità può dirci molto sulla violenza delle periferie, una science fiction in un futuro estremo può rivelarci il nostro attuale spossessamento di realtà o la perenne fallibilità della giustizia, una storia di vampiri può parlarci dello ius sanguinis o della natura del Tempo. Si tratta di adeguatezza tra il fatto raccontato e la specola da cui lo scrittore racconta, cioè si tratta del suo stile.

La capacità universalizzante dello stile è di per sé una forma di condizionale (il fatto è accaduto ma appartiene a una costellazione più grande che potrebbe essere quella sotto cui viviamo).

Chi se ne importa a quel punto se l’autore utilizza la propria autobiografia in modo diretto o indiretto, se fa come Rousseau nelle Confessioni o come Flaubert con Emma Bovary? Forse oggi si sente il bisogno di aggrapparsi ai fatti accaduti perché l’immaginazione prevalente o è troppo fatua o è troppo spaventosa. Servirebbe una disciplina dell’immaginazione, per investire il proprio capitale immaginario in opere pubbliche.

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