In questi mesi, l’arte che ha accompagnato la mia esperienza della pandemia sono state le cancellature di Emilio Isgrò. Le sue opere sono iconiche, tutti le hanno viste almeno una volta nella vita. Sono finite nelle copertine, nelle pubblicità, e sono state imitate in tanti modi. Si presentano così: pagine di libri in cui le righe alfabetiche sono state sistematicamente ricoperte da strisce di inchiostro nero.

Ho letto la sua autobiografia, Autocurriculum, pubblicata da Sellerio. Molto bella, appassionante, ironica. Aspettavo avidamente il punto in cui Isgrò spiegasse bene, una volta per tutte, come gli è venuta l’idea delle sue leggendarie cancellature. Lo fa, ma mette in dubbio sé stesso e le varie versioni che aveva raccontato in passato. L’unica cosa che dichiara senza remore è questa: «Le prime cancellature le avevo realizzate proprio sul mio tavolo di redattore mentre disegnavo la terza pagina», nella sede veneziana del Gazzettino, all’inizio degli anni Sessanta.

Qualche dettaglio più esplicito l’ho trovato in un intervento del giornalista e scrittore Ivo Prandin, sulla rivista L’immaginazione dell’estate scorsa (n. 318, luglio-agosto 2020). Prandin rievoca proprio quegli anni, quando lavorava al Gazzettino accanto a Isgrò. Vale la pena di lasciargli la parola: «Un giorno, la sorpresa: abbiamo visto le prime cancellature, e sarebbero state un’esperienza choccante. La sua avventura avveniva sotto i nostri occhi, ma l’avremmo capito più tardi: intanto, quella specie di giovane marziano usava la tipografia di un quotidiano per volare alto, in apparenza da solo ma in realtà collegato a compagni d’avventura che combattevano una loro “battaglia di parole”. Emilio stava inventando un nuovo linguaggio, anche grafico, e la tipografia del Gazzettino somigliava alle fornaci di Murano dove le idee prendono corpo fisico e, diventando visibili, partecipano alla vita. Lui era il maestro, i tipografi gli assistenti e noi colleghi gli spettatori di quello spettacolo di creatività mai visto prima. Il cancellatore!»

Non è meraviglioso che le cancellature di Isgrò siano nate in un giornale? È successo in una tipografia, cioè un posto che le parole ha il compito di farle venire alla luce. Isgrò ha cancellato le parole nel cuore di una fabbrica di parole. Si potrebbe ricavarne un facile moralismo mediatico: fu la reazione a troppa informazione? C’è una nemesi coerente se queste opere logoclastiche sono nate proprio in un giornale, in un centro di produzione di notizie? Ma questa volta vorrei provare a fare qualche considerazione un po’ diversa.

Il nastro bianco

Quelle nere spennellature di inchiostro sono state interpretate come una reazione allergica alla chiacchiera universale; secondo me sono anche un disperato tentativo di valorizzazione della parola, come cercherò di mostrare. Intanto, mentre scrivo, mi è tornata in mente un’altra cosa. Un acquisto che ho fatto all’inizio del 2020.

Ho la passione delle cartolerie, ogni volta che ci entro compro cose che non mi servono. In febbraio non ho resistito di fronte a un oggettino appuntito di plastica trasparente. Dentro ha una rotellina su cui è avvolto un nastro. Appoggiando la punta su un foglio e facendola scorrere, lascia una striscia bianca appiccicata sulla carta. È un correttore. Anche se non ne avevo bisogno, l’ho comprato. È stato un acquisto profetico.

È arrivata la pandemia, poi la clausura di marzo e aprile, e in quelle settimane non ho fatto altro che passare il nastro correttore sui calendari appesi in casa e sulla mia agendina. Una quantità di strisce bianche ha coperto tutti gli appuntamenti, le serate, gli spettacoli, le trasferte, le conferenze che dovevo fare. E lo stesso si è ripetuto in queste settimane autunnali. Sono diventato l’Emilio Isgrò di me stesso.

Le parole superstiti

A Isgrò è stata dedicata una retrospettiva alla Fondazione Cini di Venezia, un anno fa. Era curata da Germano Celant; è stata una delle ultime mostre che ha seguito, perché, pochi mesi dopo, Celant è morto di Covid-19. A quanto pare non aveva altre patologie. Si è contagiato a New York, durante l’Armory Show, la fiera di arte contemporanea. Al suo rientro in Italia le sue condizioni si sono repentinamente aggravate. Se n’è andato in poche settimane. Anche questo malinconico nesso mi fa mettere in relazione le cancellature di Isgrò, i quotidiani, il virus, la forza profetica dell’arte.

La pandemia tende a cancellare le pagine dei quotidiani, a una a una. Relega le altre notizie in secondo piano. Giorno dopo giorno le ha tirate giù dalle schermate d’ingresso dei siti, le ha rimpicciolite sulle prime pagine cartacee. Ha cancellato le cose. Si chiudono i teatri, i cinema, i ristoranti, i bar, le palestre. La realtà è come un gigantesco emilioisgrò con un pennarello nero, che passa la sua velatura di tenebra su ogni cosa.

La situazione è tale per cui, a ogni parola, a ogni cosa, ci si chiede: siamo disposti a cancellarla? Siamo disposti a passare l’inchiostro nero sui negozi, sulle scuole? Si soppesano le alternative, a volte fasulle, per decidere cosa cancellare: «strage» o «rintanarsi»? «Economia» o «salute»? «Consenso» o «rivolta»? «Giovani» o «anziani»? Cancelliamo «coraggio» e teniamo «sicurezza»? «Libertà» o «biopolitica»? «Legge» o «cuore»? «Creonte» o «Antigone»?

Le opere di questo grande artista non mostrano solo l’erosione del linguaggio, il suo deterioramento, la lebbra delle parole. Isgrò non cancella mai tutto. Lascia sempre almeno una parola, un sintagma, un residuo di frase, un mozzicone mutilato, spesso senza senso. Le sue cancellature sono valorizzazioni delle parole che restano. Decontestualizzate, isolate, naufraghe, riescono ancora a significare qualcosa? In una pagina normale, in una frase consueta, il significato delle parole nasce dalla loro interrelazione complessiva. Ma che succede quando quasi tutto il testo non c’è più?

Le parole superstiti di Isgrò si guardano intorno, vedono una distesa di righe nere, di segmenti inchiostrati. Si stringono in nuove alleanze, sperando di far scaturire qualche significato diverso. Non è facile. Per esempio, in una Cancellatura del 1964 le uniche parole superstiti sono queste: «(che è il direttore della società [seguono due righe nere] unico) per raccomandare di non fare». Un’altra: «caduti, li rincalzava ben [quattro righe nere] nemmeno con». Un’altra ancora: «monti, [tre righe nere] monti, dove non fu possibile». Che cosa significano questi lacerti sbranati?

La grande lezione del profeta Isgrò mostra che non è vero che, quando tutto il resto sarà perduto, resteranno i significati fondamentali, come ingenuamente ho ipotizzato io prima, soppesando le alternative fra parole primarie, come «libertà» e «biopolitica», «legge» e «cuore».

Semmai resteranno pochi lacerti decontestualizzati, frammenti incomprensibili, da interrogare disperatamente. Un po’ come è accaduto per certi frantumi di frasi arcaiche, lirici greci, sapienti presocratici, o intere tragedie, trattati, poemi di cui non rimangono che le briciole. Come ricombinare i pochi significati superstiti? Come leggerli davvero?

Il Natale

Bisogna fare di tutto per evitare di cancellare il Natale? Ma che cos’è il Natale? Che cosa significa questa parola, nella società italiana, oggi? Non mi riferisco al significato teologico, religioso, ma a quello sociale. E non voglio cadere nel solito moralismo sul consumismo.

La definizione pratica di Natale, in Italia, nella nostra epoca, è: «Sospensione del lavoro per qualche giorno, stasi del vortice sociale, in modo da potersi ricongiungere ai propri cari». Che cosa rivela, questa abitudine celebrata una volta l’anno? Che, forse, i propri cari li si trascura per tutto il resto del tempo.

Quali parole alternative sta soppesando il nero pennarello della realtà emilioisgroica? Cancellare «Natale» o «continuità degli affetti»? «Festa episodica» o «pienezza duratura»? «Cerimonia» o «sincerità»? «Dovere» o «amore»? Oppure, qualche lacerto insensato di frase, smozzicato, residuale, che, in mancanza di meglio, ci si è abituati a chiamare «vita»?

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