Meglio vivere un giorno da leoni che cento da pecora. Mussolini? No, Donald Trump. Le piace essere associato a Mussolini? Gli chiedono, perché l’uso di quella citazione da parte di un presidente in carica ha fatto scalpore. «No, mi piace essere associato a citazioni interessanti. Ho 14 milioni di followers». Sono tentata di considerare Marcia su Roma di Mark Cousins il vero film di apertura della Mostra di Venezia numero 79, anche se apre soltanto le Giornate degli autori, mentre a inaugurare il concorso ufficiale è White Noise di Noah Baumbach, da Don DeLillo.

Non è solo per via del centenario, che ricorre il 28 settembre. È per la radiografia della propaganda che Cousins, celebre soprattutto per la sua monumentale The Story of Film: An Odissey, realizza con un certosino lavoro alla moviola, analizzando in controluce la voglia di fascismo che oggi si aggira per il pianeta, il contagio apparentemente inarrestabile dell’estrema destra.

Opera di riferimento d’archivio è A noi! di Umberto Paradisi, con le mistificazioni che inquinano quel preteso documentario di cronaca dell’evento. Sette anni prima di Paradisi, Elvira Notari filmava la verità della Napoli popolare. Sono frammenti che incantano, nel film-saggio di Cousins.

Il cinema mente

Il raduno di camicie nere del 24 ottobre 1922 a Napoli diventa invece il punto di partenza di una manipolazione storica che farà scuola. «Il cinema mente – dice Cousins – tutta la cultura mente. Le cose che molti di noi amano – l’arte, i film, eccetera – sono anche potenzialmente nostri nemici».

Frame per frame, Cousins, che firma il soggetto del film con lo storico Tony Saccucci e con Tommaso Renzoni, stana gli imbrogli e le contraffazioni del filmato: date fasulle, un montaggio che “gonfia” le sfilate e la folla fuori dal Quirinale, la salita di Mussolini all’Altare della patria anticipata artificiosamente di una settimana. È l’anima della propaganda, lo straordinario strumento del cinema piegato alla rappresentazione eroica di un nuovo regime.

L’indagine di Cousins è molto più articolata, in realtà. Si annette l’esplorazione delle complicità italiche (Vittorio Emanuele III, la Massoneria, tra gli altri) e delle autorevoli investiture dall’estero. «Stiamo assistendo a una rivoluzione bella e giovane», dichiara l’ambasciatore Usa in Italia. Churchill definirà Mussolini «il più grande legislatore vivente».

Si passano in rassegna le atrocità meno note del colonialismo fascista e il machismo tossico – “Viagra”, per Cousins – dell’estetica e della propaganda. In margine, scopri spigolature storiche ignote, come una simbolica Marcia su Roma progettata per Gabriele D’Annunzio alla guida di un corpo militare, in programma per l’autunno 1922. E il regista, con molta ragione, si chiede perché alle molte vestigia intatte del Fascio disseminate nella capitale e non solo non si provveda ad affiancare targhe che aiutino a contestualizzarle.

(Clip tratta dal film)

Resistenza civile

Il controcanto è la satira cinematografica. Ti aspetteresti un riferimento alla coppia di scalcagnate camice nere Tognazzi-Gassman del film di Dino Risi, La marcia su Roma, che compie giusto sessant’anni, ma Cousins lo ignora. Sceglie invece la satira grottesca di Augusto Tretti: Il Potere, del 1972, non è un film commerciale ma militante, a bassissimo budget, con attori non professionisti. In qualche modo Marcia su Roma, che uscirà in sala in ottobre con I Wonder Pictures, è un inno alla disobbedienza e alla resistenza civile. Volentieri gli si perdona qualche sbrigativa semplificazione storica, destinata palesemente alle platee internazionali più che a quelle italiane, e l’intarsio di una superstar nostrana come Alba Rohrwacher.

In primissimo piano, Rohwacher dovrebbe dar conto della fascinazione prima, dell’isteria contagiosa e della progressiva presa di coscienza poi del nostro popolo, ma l’interpolazione, ci duole per Cousins, è stilisticamente discutibile. Per inciso – e questa è una notizia – per il 28 settembre un gruppo di artisti capitanati da Andrea Satta con i suoi Tetes de Bois e da Massimo Pasquini sta organizzando una Retromarcia su Roma per ripercorrere al contrario il cammino delle milizie. Obiettivo: riprendersi i sogni, le speranze, il gioco e la bellezza soffocati un secolo fa, e restituirli soprattutto ai bambini. Non è un’operazione post elettorale: il progetto è in cantiere dal gennaio di quest’anno.

L’apertura ufficiale della Mostra, affidata a White Noise di Noah Baumbach, operina mooolto intellò, come dicono i francesi, lascia invece perplessi. Il romanzo di Don DeLillo nel 1984 diventò un caso perché era intriso di un umorismo sferzante, stralunato e profetico. Sotto bandiera Netflix, l’intellettuale newyorchese Baumbach lo rilegge con una fedeltà commovente, che rischia però di spiazzare lo spettatore a digiuno della pagina scritta. La squadra è di tutto rispetto: Adam Driver, già protagonista per Baumbach del molto acclamato Storia di un matrimonio, l’inseparabile collega e compagna del regista-sceneggiatore, Greta Gerwig, Don Cheadle e il cattivissimo lanciato da Babylon Berlin, Lars Eidinger, la star tedesca oggi più in voga.

Postmodernismo datato

Il paradossale e ordinario mondo accademico descritto da White Noise (Rumore Bianco in Italia è stato da poco ristampato da Einaudi) contempla una cattedra di studi hitleriani, orgoglio del docente Jack Gladney (Driver), seminari demenziali sugli incidenti d’auto nella storia del cinema americano, spassose convivenze tra precocissimi figli collezionati attraverso quattro matrimoni.

È il postmodernismo fatto universo: i detriti della cultura popolare americana sono materia elettiva di studio, il supermarket dove docenti e congiunti dissertano è il portale attraverso cui decifrare il bombardamento di informazioni, onde, radiazioni, lettere e numeri che ci assedia. Serve una catastrofe per spezzare l’assedio.

Nel film, come nel libro, l’evento traumatico è il deragliamento di un treno carico di sostanze tossiche, che vanno a fuoco sprigionano una nube nera letale. L’ordine di evacuazione cancella le distanze di classe e di status, colonne di auto in fuga paralizzano le strade, e ci vorranno giorni e incontri bizzarri perché suoni il cessato pericolo.

L’evento ha però enfatizzato l’ossessione universale che accomuna il professor Jack e sua moglie Babette: la paura della morte. È il “rumore bianco” di cui parla DeLillo: «Come facciamo a sopravvivere, anche solo un attimo? Guidiamo l’auto, teniamo lezioni. Com’è che nessuno si è accorto di quanto profondamente spaventati fossimo, ieri sera, questa mattina? È una cosa che ci nascondiamo a vicenda, per mutuo accordo? (..) E se la morte non fosse altro che suono? Rumore elettrico. (..) Uniforme, bianco».

Ora, i dialoghi di DeLillo sono di una densità impegnativa. Sulla pagina scritta, te la cavi rallentando la lettura. Sciorinati a velocità massima sullo schermo, paralizzano gli impreparati: ho intercettato commenti allibiti di non-lettori all’uscita dalla proiezione veneziana. Baumbach “tradisce” DeLillo solo per qualche dettaglio: gli istrionici show di Driver docente (nessuna somiglianza con il corpulento Jack Gladney del libro), e molto più spazio accordato in un movimentato pre-finale (che non anticipo) alla compagna Greta Gerwig.

Se non fosse per il trasparente parallelo tra l’euforia nazista e la cecità dell’orda trumpiana all’assalto di Capitol Hill, in attesa di rimisurarsi con la Casa Bianca, White Noise risulterebbe un film irrimediabilmente datato.

Ma ricavare un film datato da un romanzo postmoderno non contraddice il concetto stesso di postmodernismo?

© Riproduzione riservata