La morte è stata la protagonista assoluta delle cronache di questo annus horribilis, si è presa per sé tutta la ribalta delle nostre vite, si è mostrata in tutta la sua potenza, spingendoci indietro nel tempo, verso quelle epoche storiche nelle quali seminava flagelli senza che gli esseri umani potessero far altro che pregare e sperare che placasse la sua violenza. Per mesi siamo stati inondati da un flusso debordante di numeri sui morti, su quanti anni avessero, su dove vivessero, su quanto rapidamente fossero passati da una vita normale alla fine. Abbiamo anche ascoltato le voci dei loro cari, i ricordi strazianti dei loro ultimi momenti; talvolta abbiamo udito lo strazio di lutti rabbiosi e feroci.

Ora è forse venuto il momento, sperando che la furia del virus stia attenuando, di iniziare a distanziarci da quel fiume di dolore per riflettere, analizzare, capire. Capire in primo luogo cosa abbiano significato per chi è rimasto quelle morti così rapide, imprevedibili, di massa, ma soprattutto cosa abbia voluto dire, per tantissimi di noi, essere stati tenuti lontani dalla scena finale, non esserci potuti avvicinare al letto dove il nostro familiare, il nostro amico stava morendo, non averlo potuto salutare, non aver potuto celebrare il suo funerale, non aver potuto ricevere gli abbracci e la consolazione di amici e parenti. Una valutazione squisitamente psicologica sarà certamente necessaria così come sarà indispensabile, sempre sul piano psicologico, potenziare gli interventi terapeutici di sostegno all’elaborazione di lutti così difficili.

Intanto però, il volume di Asher Colombo appena pubblicato da Il Mulino La solitudine di chi resta: la morte ai tempi del contagio ci aiuta, e molto, a delineare un’ipotesi socio-antropologica generale su quello che è avvenuto. Premetto che si tratta di un libro serio, anche se molto scorrevole nella lettura, pieno di dati interessanti, risultato di una ricerca scrupolosa e approfondita basata su una molteplicità di fonti: la demografia, cioè l’evoluzione nei numeri delle morti, una grande quantità di necrologi (quelli pubblicati durante la prima fase della pandemia sull’Eco di Bergamo e il Corriere della Sera), alcune indagini campionarie e un consistente numero di interviste realizzate in un ospedale del Nord Italia (rimasto anonimo) tra quelli più colpiti dalla prima ondata della pandemia.  

L’assenza di riti

Dietro la gran messe di dati emerge nitidamente una chiave di lettura che l’autore ribadisce in più punti del libro. La chiave è questa: l’impossibilità di congedarci dai defunti “normalmente”, con i gesti e con i rituali consegnatici dalla tradizione, ha rappresentato una ferita enorme, una lacerazione intollerabile del tessuto che tiene insieme le nostre società e che lega non solo quelli che restano con quelli che non vi sono più, rappresentando quindi il cuore della nostra identità storica e della memoria collettiva, ma anche i vivi tra di loro, privati in questo frangente della possibilità di rinsaldare, piangendo i morti, legami e vincoli sociali. Insomma la pandemia avrebbe rappresentato, da questo punto di vista, una vera e propria minaccia all’integrazione sociale, alla tenuta politica delle nostre comunità, fondata, tra le altre cose, sul culto dei morti.

L’ampiezza della minaccia spiegherebbe, secondo Colombo, la portata della ribellione, l’ampiezza dei tentativi, talvolta legali talaltra no, messi in atto dai dolenti per salvare in qualche modo i vecchi e consolidati rituali del congedo. Così come spiega anche la complicità dei tanti che sono venuti loro in soccorso in quest’impresa diciamo “resistenziale”: degli infermieri che hanno scattato una foto o mandato un video ai parenti con l’ultima immagine del loro caro in ospedale o fatto uno strappo alla regola e consentito ai medesimi di gettare direttamente un rapido sguardo alla salma avvolta in un sacco; dei medici che hanno per un attimo aperto le porte della corsia ospedaliera dove una signora stava morendo di Covid per farvi entrare il marito (poi ammalatosi a sua volta); degli impresari di pompe funebri che hanno fatto deviare il percorso del morto verso il cimitero per farlo passare per un attimo sotto le finestre della sua abitazione. È come se l’intera società civile avesse deciso, in modo spontaneo, senza un coordinamento preventivo, senza bisogno di alcuna pubblicità, di accordarsi e mobilitarsi per impedire il naufragio della convivenza civile e proteggere uno dei nuclei più sacri e inviolabili della sua unità: appunti il culto dei morti. Questa è la tesi centrale dell’autore. Una tesi certamente ragionevole, sensata e corroborata da numerosi puntelli empirici, diciamo da prove convincenti.

L’ostacolo del corpo

Per amore di discussione provo a ipotizzarne un’altra e provo a immaginare che il “sequestro della morte” avvenuto durante la pandemia per tanti versi assecondi, esasperandola e radicalizzandola, la tendenza già all’opera da tempo nella nostra società a negare la morte, rendendola invisibile e lontana, rimuovendola dalla nostra vista. I sintomi di questa tendenza sono noti e numerosi. Ne cito uno particolarmente significativo menzionato anche nel libro: la totale delega alle imprese funebri del corpo del morto, che le famiglie, a differenza di quanto avveniva sino a qualche decennio fa, non vogliono più vedere e toccare sino a quando si trova, composto e vestito, all’interno della bara. Potremmo aggiungerne molti altri: la sottrazione ai bambini della vista dei morti, la difficoltà e l’imbarazzo nel fare le condoglianze. E così via. La morte per Covid, quella ospedaliera e segregata, ha risolto molti di questi imbarazzi, rafforzando la negazione della morte, irrobustendola ancor di più.

Ma, ecco la novità, rimuovere la morte non vuol dire rimuovere i morti, dimenticarseli, scordarsi che siano esistiti. Al contrario, oggi i morti possono sopravvivere in forme inedite e molto più resistenti, assai più durature. La loro identità può sopravvivere in eterno nei social media, ad esempio in quelle pagine Facebook intestate al defunto che si riempiono dal giorno della sua morte di messaggi, di foto, di suppliche, di preghiere, di ricordi.

Quello di cui ci vogliamo sbarazzare al più presto è solo il corpo, l’organismo senza vita. Eliminato quello, e al più presto, l’anima può continuare il suo percorso, come dimostrano le forti credenze circa la sua sopravvivenza di cui sono convinti tanti italiani al contrario diffidenti verso la possibilità della resurrezione (ancora una volta l’ostacolo del corpo, l’imbarazzo della sua presenza). Il corpo può essere cremato (e lo è sempre di più anche nel nostro paese), così come può serenamente venir dimenticato da chi al cimitero non ci va mai senza sentirsi in colpa. Se il corpo del morto proprio dev’essere visto che sia almeno presentato come se fosse vivo; da qui la diffusione della tanatoestetica, che magicamente trasforma un corpo morto in uno che sembra vivo.

È questa della condanna della corporeità la filosofia sociale espressa benissimo in uno dei brani di intervista che si leggono nel libro, quello di una signora che confessa di «non avere tanta voglia di farmi mangiare dai vermi e soprattutto non vorrei mai che le mie figlie assistessero alla riesumazione del cadavere della mamma o di quello che resta della mamma e quindi ho detto “ma perché? Ma perché? Perché non mi possono ricordare, magari anzianotta, ma vispa com’ero? Mi ricordino com’ero. Perché devo fare vedere loro lo scempio di come resta il nostro corpo?”».

Insomma, io giudico tutta la vicenda narrata nel libro e di cui siamo stati spettatori basiti come l’ennesima puntata dello scontro intorno alla morte tra la tradizione e l’innovazione sociale, tra quel che rimane dei vecchi riti, il tenere la mano del morto nel momento del trapasso, il baciarne il viso prima della sepoltura, il posare un fiore sulla tomba, e la nuova “spiritualità incorporea” che spinge a invadere i social media di immagini del morto e a scrivere messaggi di condoglianze di tre lettere (Rip) su Facebook, efficaci e poco impegnativi. Una cultura alimentata continuamente da film, serie tv, intere collane editoriali, che per tanti versi fa a pugni, anche dentro le coscienze di tanti, con l’eredità del nostro passato. Come il bel libro di Asher Colombo ci ha ricordato.

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