Da quasi due mesi Running Up That Hill di Kate Bush, hit di culto della riservata artista inglese oggi 63enne, uscito nell'agosto 1985, è ai primi posti di tutte le classifiche di streaming: Spotify, Youtube (24 milioni di visualizzazioni), l’imprescindibile TikTok dove risultava usata 2,3 milioni di volte per un totale di 158 milioni di like.

Effetto Netflix 

Piazzata nel cuore della quarta serie di Stranger Things (uno dei massimi fenomeni globali di Netflix) la canzone gode della trovata di non essere soltanto placement né pezzo d'epoca (la serie è ambientata tra il 1983 e l’86), ma elemento centrale della sceneggiatura. In una scena di rara potenza della quarta puntata, Running Up That Hill sparata nelle cuffiette del walkman sveglia dall'incantesimo uno dei personaggi principali della storia, la ragazzina Maxine Mayfield, e la salva momentaneamente dalle grinfie di Vecna, malvagio demone del mondo del Sottosopra.

Di “effetto Kate Bush” o “effetto Netflix”, già si parla tra i discografici e gli esperti di marketing. Le cosiddette sincronizzazioni (l’uso della musica nelle serie e al cinema) e in generale lo sfruttamento del “catalogo” sono campi verso i quali guardano con interesse i movimenti recenti nel music business, a cominciare dalla vendita da parte degli artisti dei diritti delle proprie canzoni a società specializzate, oppure direttamente alle case discografiche.

Investimenti non indifferenti che ora, per questo, vanno fatti fruttare. Le serie tv sono piene zeppe di musica, elemento strutturale del racconto, dei suoi tempi, della sua economia narrativa. Della sua economia tout court.

Marketing nostalgico

Ottenne il medesimo effetto, in una situazione profondamente differente, il “marketing integrato” che nell'anno 1985 grazie alla campagna per i jeans Levi’s Laundrette riportò in alto nelle classifiche di vendita brani come I Heard It Through The Grapevine di Marvin Gaye e Wonderful World di Sam Cooke, usciti più di vent’anni prima. È tutto nei libri di testo. In grave decadenza di appeal e vendite, appiattita sulle immagini del presidente Ronald Reagan o del “turista americano” di mezza età, la americanissima azienda provò a rovesciare il tavolo evocando la propria appartenza a una nazione mitica e certo più elegante di quella presente.

Nel primo spot della serie girato da Roger Lyons per l'agenzia Bbh il modello Nick Kamen – di presleyana bellezza - entrava in una lavanderia a gettone inquadrata sotto un luce soffusa, si toglieva i jeans e in mutande boxer aspettava il suo turno nell’imbarazzo divertito di ragazze e signore in attesa. In sottofondo suonava I Heard Through The Grapewine di Marvin Gaye (per motivi di budget quella che si sentiva nello spot era una cover). Il più grande successo d’ogni tempo della Motown, uscito nel 1968, aveva avuto un primo revival due anni prima grazie ai titoli di testa del film The Big Chill, uno dei grandi nostalgia film dell’epoca.

Levi’s ripeté l'operazione con successo, fino al 1987. Si calcola che le vendite di jeans 501 ebbero un’impennata dell’800 per cento.  Anche le mutande boxer non andarono male. I singoli Wonderful World di Sam Cooke e Stand By Me di Ben E. King che suonavano negli altri spot della campagna ritornarono puntualmente in classifica.

Colonizzazione estetica

Certo era un’America ricostruita per intero, un pastiche di stili e oggetti culturali di epoche differenti: i dischi della Motown già integrati e kennedyani, l’estetica dei ribelli Dean e Brando, una pasta dell'immagine da vecchie illustrazioni anni Cinquanta tipo Norman Rockwell, tutti i nostalgia film (American Graffiti, Il Grande Freddo, Good Morning Vietnam), persino la copertina di Born in The Usa di Bruce Springsteen (1984), patriottismo di sinistra con che addosso un paio di 501. Era molto meglio di Ronald Reagan, e tanto bastava. Ma quell’America non esisteva. Mai esistita in quella forma. 

La definizione di nostalgia film si legge in un saggio di Fredric Jameson del 1984. Anni Ottanta di nuovo, e qui l’affollarsi delle date comincia ad acquistare una certa vertiginosa significatività. Si tratta del primo dei lavori del critico letterario americano sul postmoderno e la logica culturale del tardo capitalismo, una quarantina di pagine pubblicata dalla New Left Review. Jameson, usando un marxismo avanzato ma non disposto a fare sconti, osserva la trasformazione della storia in moda, in ideologia generazionale e infine in “colonizzazione estetica”.

American Graffiti (1973) - scrive - è il tentativo di recuperare l'era di Eisenhower, le cittadine della provincia americana come perduto oggetto del desiderio. La forzature palesi in questo racconto del passato, conclude, nascondono  anche «l’incapacità di rappresentare la nostra esperienza presente».

Il revival 

Il doppio album con le musiche del film American Graffiti era uscito per la Mca. Aveva riconsegnato a una generazione che non le aveva mai potute ascoltare veramente, le canzoni di Chuck Berry, Del Shannon, Billie Haley, Booker T. Disco doppio. Vendette un milione di copie quell’anno e fu il primo vero fenomeno moderno in fatto di revival musicali.

La rielaborazione degli anni Cinquanta è stata un fenomeno particolarmente complesso. Comprendeva uno spirito ironico, camp che lavorava dentro la sconfitta politica del ‘68. E una capacità di sintesi salutata con gioia dal nascente punk, particolarmente attratto dai ribelli di ogni tipo, erotici e/o politici (Malcom McLaren a Londra guardava alle temibili gang dei Teds e alla cultura sadomaso). È il motivo per cui anche di fronte alla plumbea analisi di Jameson, il revival (o retromania) ha sempre sedotto frotte di ascoltatori.

Che cosa chiediamo, cosa possiamo chiedere ancora come ascoltatori, alla musica del passato, la catalogue music? Il revival, la regressione, la forza di sentimenti come il ricordo e la nostalgia, anche se totalmente rimossi da qualsiasi realtà storica. Jameson sosteneva con arguzia che pure molti film di ambientazione contemporanea subivano il fascino dei nostalgia film e della loro messinscena. Chi, infine, all’epoca si chiedeva cosa avremmo ricordato di un tempo in cui già si viveva di revival bene, quel momento è arrivato.

Guardare al futuro

Leading British female pop singer Kate Bush, in London, England, April 6, 1980. (AP Photo)

Tornando a Running Up That Hill, Kate Bush è stata un personaggio troppo singolare per assecondare semplicemente lo spirito del tempo, gli anni Ottanta. Aiutata all'inizio da David Gilmour e Peter Gabriel, ha attraversato le grandi ondate della musica pop inglese con uno stile piuttosto arty e solitario. Frutto di un immaginario fantasy, neoromantico, camp, già completamente postmoderno.

L'album Hounds of Love (1985) venne inciso in uno studio casalingo con i primi strumenti digitali: la batteria elettronica Lynn (programmata dal suo compagno Del Palmer, bassista e sound-designer) e il campionatore Fairlight, costosissimo giocattolo grazie al quale la cantante suonava nell'accompagnamento la sua stessa voce come se fosse nel mezzo di un coro di angeli. Del resto, la canzone chiedeva a Dio la possibilità di cambiare di posto con amanti e fidanzati («a deal with God») per sapere finalmente come si sentono loro.

La figura dell'artista capace di autogestirsi in tutto anticipa la mutazione dell'industria discografica che sarà imposta di lì a pochi anni prima dal digitale e poi dalla rete. È uno sguardo nel futuro prossimo.

Una cosa è certa. Gran parte del 2,3 milioni di dollari generati fin qui dallo streaming di Running Up That Hill andranno alla stessa Kate Bush, che attraverso la sua etichetta discografica e casa di edizione Noble&Brite, li detiene in maniera quasi completa. Una specie di beffa a chi nel frattempo li ha venduti in blocco a cifre stratosferiche: Dylan, Springsteen, David Bowie tra questi. La lista si allunga nel tempo, con effetto vagamente funerario. Di recente anche Jean Micheal Jarre, pioniere francese dell'elettronica, ha venduto alla Bmg i diritti editoriali del suo catalogo.

Rare sono le voci contrarie. Madonna, che ha un accordo vecchio tipo con la Warner, ancora non prevede in alcun mono di vendere pezzi della sua produzione: «La proprietà è tutto», ha detto e ripetuto.

Sarebbe stato strano il contrario per un’artista che ha costruito la sua carriera sul controllo totale e autoriale della propria immagine.

Di Madonna è appena uscito di recente un remix-duetto con Beyoncè (Break My Soul) che rimette in gioco la sua vecchia Vogue, 1990. Nel 1986 Madonna aveva scritto e fatto il coro nella canzone che trasformò in un definitivo quanto effimero teen idol il ragazzo dei Levi’s e della lavanderia, il modello Nick Kamen.

© Riproduzione riservata