L’idea è la stessa che ha funzionato per quasi 130 anni con la Parigi-Roubaix: fare una gara in bicicletta dove a nessuno verrebbe in mente di correre. Là sono le pietre confuse del nord della Francia, terra di miniere e di trincee. Qua sono gli sterrati del senese, che hanno permesso agli organizzatori della Strade Bianche di definirla «la classica del nord più a sud d’Europa».

Il guizzo della Roubaix venne alla fine dell’Ottocento a un cronista di ciclismo, che aveva provato il pavé sotto il pioggia e si era dibattuto a lungo tra la tentazione di fondare una prova mai vista prima e la paura di scatenare un progetto diabolico: vinse la curiosità, e nacque la corsa più anacronistica e affascinante del mondo. I primi esperimenti di ciclismo sugli sterrati toscani risalgono a un secolo più tardi, alla fine del Novecento, con cicloturistiche come l’Eroica.

Dal 2007 quell’idea è diventata una corsa per professionisti, e dal 2009 ha preso la collocazione perfetta per una classica del nord, la primavera. Manca soltanto il nord, ma questo - l’Italia, e più ancora la Toscana - dà alla Strade Bianche un carattere che nessun’altra classica può vantare: un paesaggio unico al mondo, le crete, le contrade, le torri, le chiese, una bellezza struggente. E poi Siena, che come scrisse il Nobel per la letteratura José Saramago, «non può esservi nulla di più bello».

Dopo le salite, i tratti di sterrato, la polvere (che quando piove diventa fango), i corridori fanno l’ultima fatica su via Santa Caterina prima di spuntare in piazza del Campo, «una piazza inclinata e curva come una conchiglia, che i costruttori non vollero spianare ed è rimasta così, come se fosse un grembo». O per dirla con un altro Nobel per la letteratura, Albert Camus, «come una mano che offre ciò che l’uomo, dopo la Grecia, ha fatto di più grande». Lo scrittore francese sperava addirittura di chiudere qui la sua vita, «quando sarò vecchio, vorrei che mi fosse concesso di tornare in questa strada di Siena che non ha eguali nel mondo e di morirvi in un fossato, circondato solo dalla bontà di quegli italiani sconosciuti che io amo».

La ghiaia

In pochi anni la Strade Bianche è diventata la classica più apprezzata dai corridori, in molti hanno detto apertamente che la vedrebbero come sesta Monumento, al pari di Milano-Sanremo, Giro delle Fiandre, Parigi-Roubaix, Liegi-Bastogne-Liegi e Lombardia. Sono Monumento le classiche che ti cambiano la vita, quelle che ti basta averne una nel curriculum per poter essere considerato un campione.

Quello che manca alla Strade Bianche è la tradizione: è nata ufficialmente soltanto 17 anni fa. Ed è un paradosso per una corsa che affonda le sue radici proprio nel passato. Come del resto l’ultima tendenza del ciclismo, il gravel. «Non chiamiamola moda, perché non è destinata a passare». Ilenia Lazzaro, voce del ciclismo su Eurosport, nata nel fuoristrada, è autrice del format Gravellando con Ilenia. Perché gravel, letteralmente ghiaia, adesso in italiano è diventato anche un verbo: gravellare.

«Non passerà di moda perché sulle strade ci sono sempre più macchine, e chi si approccia alla bici preferisce mille volte andare fuori dai pericoli, senza rischiare la vita a ogni metro. Ma lo stesso vale anche per i ciclisti più esperti. Io abito in una zona del Veneto dove per trovare la prima salita dovrei fare 40 chilometri, e allora me ne vado sulle strade bianche, qui attorno è pieno di argini, posso pedalare per ore senza vedere un pezzo di asfalto. Piove? Esci lo stesso, ti sporchi come quando eri bambina e sei felice».

È una tendenza, quella del gravel, che ha cambiato il modo di organizzare le corse cicloturistiche: molte granfondo vengono sostituite dalle gravel. È un modo di vivere, che ha un impatto anche sull’industria. «L’effetto sul mercato delle mountain bike si sta sentendo. Anche perché ormai con le gravel vai dappertutto. I nuovi modelli che escono vengono esauriti in poche ore». È il fascino del ciclismo di una volta, della fatica pura, «e sulle strade bianche trovi posti bellissimi, dalla strada asfaltata non tutto è visibile».

Anche il Tour si converte

Persino il ciclismo su strada subisce il fascino della ghiaia. Strade Bianche è stata la prima, poi sono arrivati gli sterrati anche al Giro d’Italia. Per non parlare delle gare giovanili. D’altra parte è una disciplina che tecnicamente esalta le caratteristiche di chi sa guidare la bici. Il 2024 sarà un anno storico: anche il Tour de France andrà a cercare le strade bianche, che aveva sempre accuratamente evitato. Perché, parola dei fondatori, «il Tour è la corsa più importante del mondo, deve guardare al futuro, spianare la strada verso il nuovo, non si può concedere l’errore della nostalgia». E non c’è niente di più nostalgico di correre mangiando la polvere di strade che non hanno mai conosciuto l’asfalto.

Ma questo ritorno alle origini, al ciclismo eroico, ha in sé tutte le potenzialità del futuro. Così anche il Tour ha ceduto e dedica un’intera tappa, la nona, allo sterrato. Il 7 luglio, da Troyes a Troyes, la città della Lacoste, il gruppo dovrà affrontare 14 settori di strade bianche per un totale di 32 chilometri. La Strade Bianche, quella con le maiuscole che va in scena oggi, prevede 15 settori per un totale di 71 chilometri di sterrato sui 215 della corsa maschile, e 12 settori per 40 chilometri di sterrato sui 137 della corsa femminile. Perché anche in questo la corsa di Siena batte le Monumento italiane: Milano-Sanremo e Lombardia non hanno una versione femminile.

ANSA

Le origini

Era il 1997 quando a Gaiole in Chianti 92 appassionati presero parte alla prima Eroica, percorrendo le strade bianche con le bici d’epoca e l’abbigliamento di una volta, maglie e calzoncini di lana o di acrilico. Erano collezionisti, stravaganti bohémien, tutti italiani. Oggi l’Eroica è un evento che attira partecipanti da tutto il mondo, uomini, donne, vecchi, ragazzi, e che ogni prima domenica di ottobre ricrea una magia senza tempo. Norma Gimondi, figlia e fotocopia di papà Felice, avvocata, bergamasca, è una veterana dell’Eroica e un’appassionata del vintage, che prescrive bici anteriori al 1987 (con tutti i limiti che questo comporta) e abbigliamento consono.

«Per me quello è il paese dei balocchi. Panorami unici al mondo, gli strappi al 12% che ti tagliano le gambe, un su e giù che non ti fa mai stare tranquillo, proprio come la vita». È il bello della fatica fisica, della scomodità, di quello sforzo che ti toglie i pensieri. «Sei continuamente in tensione, non hai un ritmo costante, e mentre fai quella fatica su quel pezzo di sterrato lo odi e al tempo stesso lo ami, perché capisci che anche tu fai parte di quella bellezza, di quella polvere che ti fa bruciare le labbra, e quando bevi dalla tua borraccia bevi acqua mista ad argilla senese, ma quando alzi lo sguardo su quelle contrade, su quei campanili, ti si riempiono gli occhi e il cuore. È quella fatica che appena arrivi ti fa dire: l’anno prossimo ci torno». È il passato del ciclismo, e insieme la garanzia del suo futuro.

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