Se gli inglesi devono parlare di qualcosa che non apprezzano particolarmente dicono it’s not my cup of tea, non è la mia tazza di tè. Quando negli Usa si chiede a qualcuno di raccontare chiacchiere o pettegolezzi, gli si chiede di spill the tea, versare il tè. I tedeschi dicono abwarten und Tee trinken (letteralmente, aspettare e bere tè) per indicare quelle situazioni in cui ci si mette comodi e si attendono le conseguenze delle azioni di qualcuno (con una punta di Schadenfreude).

Come tutto ciò che diventa una parte così importante della cultura, il tè è penetrato nei modi di dire e nelle lingue d’Europa e dell’occidente. Ma come ci è arrivato?

Cos’è un nome

«Che cos’è un nome?», si chiedeva la Giulietta di William Shakespeare, affacciata al balcone. «Ciò che noi chiamiamo con il nome di rosa, anche se lo chiamassimo con un altro nome, serberebbe pur sempre lo stesso dolce profumo».

Ora, se anche viene difficile dire che il tè ha sempre lo stesso profumo (sarebbe fare uno sgarbo all’enorme complessità e varietà di questo prodotto), è vero che la Camellia sinensis è una sola. E in realtà, non ha nemmeno così tanti nomi.

Nella stragrande maggioranza delle lingue, infatti, la bevanda più diffusa del mondo viene chiamata in uno di due modi: te o cha. Chiedersi perché significa ripercorrere la storia di come il tè si è diffuso dalla Cina nel resto del globo. E soprattutto ripercorrere le rotte commerciali che hanno plasmato questa diffusione.

C’è una prima macrodistinzione che si può fare, e che viene spesso rappresentata in maniera efficace su una carta geografica: le lingue che hanno adottato i derivati di cha sono (con alcune eccezioni evidenti) quelle dei posti in cui il tè è arrivato per terra (India, Persia, Russia per esempio). Quelle in cui invece si chiama te, sono invece quelle parlate nei paesi in cui la Camellia sinensis è arrivata per mare.

Questa divisione rispetta davvero la realtà? «È una distinzione pertinente», spiega a Cibo Livio Zanini , ricercatore di lingua e cultura cinese all’università Ca’ Foscari. Ma non sufficiente a descrivere come questa parola è arrivata in occidente.

Storia di una parola

Nella storia del tè, in principio era la Cina. Dove gli archeologi hanno trovato germogli di tè in tombe del II secolo a.C. E in principio il suo nome (sebbene non univoco) era tu: un logogramma che indicava in “verdure amare”. Il carattere che indica in maniera univoca il tè in cinese viene attestato nelle fonti soltanto nell’VIII secolo d.C., ed è quello usato da Lu Yu nel Chajing (Il canone del tè), il primo trattato dedicato a questa bevanda: da quel momento quindi esiste una parola (cha) che ha il significato unico di tè.

Ma il cinese «è una scrittura logografica: c’è unità di significato, ma non di suono», dice Zanini . E infatti mentre in cantonese (e più in generale nel nord) il tè viene chiamato cha: è con questo nome per esempio che arriva in Giappone. Ma da altre parti (come nel Fuijan, a sud-est della Cina) viene chiamato te.

L’arrivo in occidente

È un italiano in realtà a lasciarci la prima attestazione nella storia europea di un riferimento al tè. Si tratta del cartografo trevigiano Giovanni Battista Ramusio che in un trattato (pubblicato postumo nel 1559) riporta le parole di un mercante persiano che parla di cha Cathai, tè della Cina.

Sempre nel XVI secolo, i portoghesi hanno due basi commerciali in Asia: a Macao e in Giappone. Da qui riportano in Portogallo la pronuncia cantonese (e giapponese): e infatti, a differenza dei loro vicini di casa in Europa, ancora oggi a Lisbona si beve chá.

«Non sono però i portoghesi a iniziare a importare il tè in Europa», ricorda Zanini , «ma gli olandesi, che avevano basi a Batavia», ovvero l’odierna Giacarta. Qui dai mercanti cinesi e poi nella loro base ad Amoy (oggi Xiamen) in Fujian assorbirono la pronuncia te. Dall’olandese (thee) la parola è poi passata al francese (thé), al tedesco (Tee), all’inglese (tea).

Una distinzione ereditata

È invece dagli occidentali, a partire dai mercanti olandesi, che si origina il modo che oggi è diffuso di classificare il tè sulla base del tipo di lavorazione delle foglie.

In Cina, infatti, tradizionalmente i diversi tipi di tè venivano caratterizzati sulla base dell’origine geografica. Sono gli olandesi che compravano sia tè ossidati che tè non ossidati, a introdurre la demarcazione linguistica tra tè “verdi” e tè “neri” (quelli che in lingua cinese diventano tè “rossi”) sulla base del colore delle foglie e dell’infuso che producevano.

A complicare il quadro c’è il fatto che nelle fonti storiche cinesi abbiamo «pochissimi riferimenti concreti al processo di lavorazione» delle foglie di tè, afferma Zanini : «Sappiamo che è dal periodo della dinastia Ming (1368-1644) che si afferma l’uso del tè in foglie. Prima era diffusa una lavorazione che prevedeva l’infusione di foglie polverizzate: è la lavorazione del matcha, che infatti i monaci giapponesi importarono dalla Cina perché all’epoca era la più diffusa».

Resta quindi difficile capire esattamente quando sono nati i diversi tipi di lavorazione del tè che oggi anche in Cina vengono distinti con nomi che fanno riferimento al colore di foglie e infuso.

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