Quanto a oscenità – l’intelligenza è sempre oscena e mai volgare – Giorgio Manganelli non ha avuto rivali. E questa sua impudicizia neanche programmatica, ma ben più gravemente endemica, trova il suo approdo ideale nel racconto che di lui fa la figlia Lietta in Aspettando che l’inferno cominci a funzionare, appena mandato in libreria dalla Nave di Teseo.

Il testo – che fa eco e prende le mosse da L’album fotografico stampato da Quodlibet nei primi anni zero – si avvale di una costruzione, manco a dirlo, luciferina, che scardina tutto quel che ci aspettiamo da una biografia convenzionale.

Aneddoti e falsità

Giorgio Manganelli, da una foto dell'archivio storico Agf

Ci sono tanti aneddoti, anche molto intimi, chicche come il giorno in cui Lietta piomba a Roma dal padre che non vedeva da anni, e la presentazione striminzita che gli fa di sé sulla soglia di casa è la seguente: «Scusi, lei è il professor Manganelli? Allora io sono sua figlia!». 

Questa congerie di aneddoti è raccontata nell’ottica inversa rispetto alla costruzione di un memoir: più che il valore della memoria, qui abbiamo il valore dell’amnesia, i fatti contano relativamente, la distorsione che se ne fa è molto più divertente (oltre che veritiera). La figlia Lietta, non meno diabolica del padre (ma per gli amici era soltanto il Manga, un fascinoso tapiro), si è occupata di ristabilire la giusta dose di menzogna sul padre, accompagnando alle foto un racconto pieno di falle, che non vuole farsi biografia ma piuttosto alimentare la leggenda.

E “Leggende metropolitane” si chiama anche la prima sezione del volume, dove apprendiamo che Manganelli fu bocciato in prima elementare, anzi no, sono soltanto dicerie messe in giro a detrimento di se stesso, gli dettero una medaglia al merito come primo della classe, e così via per tanti fatti della vita del nostro, di cui si hanno almeno due gustosissime versioni, come la questione dell’università: dovrebbe essere la Normale di Pisa ma poi invece sarà Pavia per non allontanarsi troppo dalla madre.

Ogni storia diventa una storiella, ha disciolto dentro di sé il veleno dell’invenzione, dell’esagerazione. Come quando a una fiera di Francoforte il Manga dà di matto perché prende a mancargli la sua fedele macchina da scrivere chiamata “Patrizia” e Giulio Einaudi per toglierselo dai piedi lo spedisce a una mostra di pittori fiamminghi.

D’altronde secondo Lietta una delle massime del padre era proprio la seguente: «Chi dice la verità ha una vita sola, chi mente ha tutte le vite che vuole». Massima dentro cui cova tutta la poetica dello scrittore della letteratura come menzogna.

Le foto iconiche

Sintomatica, in questo senso, la galleria delle foto, dove l’iconografia sembra programmata per creare il personaggio e disfarsi della persona. Le foto testimoniano che Giorgio Manganelli è stato davvero all’altezza del proprio mito, sapendolo incarnare alla perfezione.

Ecco allora una foto della babelica scrivania del Manga: «…uno dei posti più incasinati d’Europa; non voleva che gli si toccasse niente perché sennò gli mettevano disordine»; oppure il Manga ritratto a una riunione del Gruppo 63, al quale fu sempre organicamente disorganico: «Lui si metteva in un angolo, li lasciava parlare e poi con due frasi fulminanti distruggeva tutto quello che avevano detto fino a quel momento e buonanotte»; o anche il Manga in uno scatto a Dogliani in Piemonte, nell’intervallo di un convivio einaudiano, mentre esce furtivo dalla salumeria con un panino tra le mani: «Soprattutto temeva ci fosse in giro Einaudi che magari gliene mangiava un pezzo, questa era una cosa che lui non sopportava, Einaudi durante i pranzi allungava la forchetta nei piatti dei suoi autori per assaggiare»; o ancora il Manga in posa serafica, seduto al tavolo di una trattoria: «Non prese l’insegnamento al Dams perché a Bologna si mangia male, diceva, è un posto di patate lesse e di riso in bianco».

La vita del Manga è un falso storico

Le vicissitudini di Giorgio Manganelli vengono snocciolate a una a una, il matrimonio con l’umorale Fausta, che lo metterà alla porta pochi anni dopo, la relazione con la giovane Alda Merini prima dell’arrivo della follia (per entrambi?), gli stenti iniziali a Roma, dove oltre alle solite collaborazioni editoriali sottopagate da precario del mondo culturale è impiegato come insegnante presso degli Istituti tecnici femminili.

Gli incontri con gli amici intellettuali, tra cui spicca per mancata lungimiranza quello con Pietro Citati: «Scriveva qualche saggio critico, ma il suo stile era incerto, lento e affaticato: sembrava un professore più intelligente degli altri; ed ero certo che non possedesse talento».

Il colpo di fulmine e le ore di analisi con Ernst Bernhard, che più che curarlo gli fanno capire qual è la malattia più adatta a lui, in che modo declinare il suo pessimismo compulsivo. Ma forse l’episodio più preciso nel descrivere il libro di Lietta e la vita di suo padre succede quando nel 1966 Manganelli con il suo esordio vince l’appena istituito premio il Caffè.

Il Manga non si presenta a Bergamo dove avrebbe dovuto ritirare il premio, e allora i suoi sodali s’inventano una foto tarocca in uno scantinato romano dove si finge di dargli l’assegno del premio vinto, con la complicità di Giangiacomo Feltrinelli e Alberto Arbasino…

Pepite d’oro

Ritratto di Tullio Pericoli, 2009

È una miniera di pepite d’oro, questo libretto, e personalmente lo consiglierei al neofita manganelliano più volentieri di altri suoi più conosciuti e altisonanti titoli: Hilarotragoedia (1964), Agli dèi ulteriori (1972), Centuria (1979), adesso tutti mirabilmente rintracciabili presso Adelphi.

Quelli di Manganelli, divino, nevrotico prosatore, sono sempre auto-libri, libri che non hanno nessuna intenzione di raccontare l’esterno. Si può ben asserire che la letteratura di Manganelli sia una fodera.  È una letteratura implacabile, a tratti illeggibile, che può spaventare.

Da un lato c’è la concettosità impervia che vuole la scrittura come suprema menzogna (le parole essendo cose, non possono indicare nient’altro che sé stesse); dall’altra una lingua fastosa (e festosa, ancorché greve) che ha fissato un paletto oltre il quale, al momento, nessuno si è avventurato.

Svolta pop

Per decenni impallato dal vuoto pneumatico delle ideologie (e a seguire dal crollo delle stesse) – sulfuree le frecciate del Manga a Pier Paolo Pasolini, definito di volta in volta altezzoso, oscuro, frustrante – è stato recuperato da una piccola ma agguerrita élite intellettuale a partire dagli anni Novanta (d’obbligo segnalare il numero di Riga a cura di Marco Belpoliti e Andrea Cortellessa, una preziosa monografia uscita nel 2006 per Marcos y Marcos).

È cominciata a circolare l’idea – l’azzardo – di un Manga ultra pop, i cui deliri letterari potessero essere per tutti (pur nella loro mostruosità fuori scala). Ma già quei tentativi possono essere archiviati con un buco nell’acqua.

Verrebbe da dire che Manganelli più che letto vada pensato, rimuginato in quanto paradigma di una letteratura assoluta che, eccetto lui, nessuno ha praticato. Non ha fatto scuola, Manganelli, né avrebbe potuto. Sono nati dei fan club, ma nessun buono o pessimo imitatore.

In fondo quel che sogna ogni grande scrittore è di condurre a un vicolo cieco e lui resta imprendibile, la sua pagina una palude definitiva per chiunque cerchi di attraversarla indenne. Piuttosto lo si deve tenere a distanza, anzi proporrei all’incauto lettore che dovesse acquistarne i volumi di ghettizzarlo, metterlo in uno scaffale apposito, costruirgli una sorta di recinto intorno che lo separi dagli scrittori normodotati, adibire una sorta di casalingo (ma non meno periglioso) zoo Manganelli.

Insomma, si sarà capito, Manganelli non è uno scrittore da leggere sotto l’ombrellone (anche se il paradosso non gli sarebbe dispiaciuto). Per il commiato, converrà affidarci ancora alle parole della figlia Lietta: «E da bambina mi raccontava queste storie pazzesche di draghi che mi sono rimaste impresse a vita… Come le storie di San Giorgio, ma viste dalla parte del drago».

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