La scrittura di Simenon non è schizzinosa, il che è forse la dote migliore che una scrittura possa avere. Nessuna purezza da millantare o rivendicare, la scrittura deve razzolare in egual misura nell’empireo e nell’abisso, mischiare l’alto e il basso. La scrittura e, bisogna subito precisarlo, anche lo scrittore.

Intorno agli anni Trenta Eugene Merle, principe del giornalismo e avventuriero della finanza e dell’editoria, avrebbe voluto far scrivere a Simenon un intero romanzo chiuso in una gabbia di vetro, in modo che chiunque potesse vedere all’opera il suo implacabile genio creativo (Simenon era solito impiegare non più di una manciata di giorni per la stesura di un nuovo lavoro).

Impresa che naufragò per la repentina chiusura del «Paris Matinal», il giornale dove quel romanzo sperimentale – molto meglio e molto di più della pittura impressionista en plein air: già un reality show – sarebbe dovuto comparire. Una modernissima intuizione pubblicitaria che Simenon avrebbe tranquillamente assecondato. Così come assecondava quotidianamente i propri straripanti impulsi sessuali.

La scrittura che non ha paura di niente è quindi solo una conseguenza di questo spirito ingombrante, benché terribilmente ordinato nell’organizzazione delle proprie nevrosi. Basti gettare un occhio alla sua scrivania, a tutte le matite perfettamente temperate, alle pipe diligentemente allineate.

Pur essendo profondamente scrittore, Simenon è riuscito a non fare a meno della propria opera (gli scrittori veri spesso tendono a sabotarsi – si pensi solo nel Novecento a Kafka, questo stitico dal talento smisurato, non a caso “artista del digiuno”). Simenon invece appartiene alla schiatta degli scrittori che hanno scritto tanto. E ancora, dovendolo definire per stringente accerchiamento, bisognerà metterlo tra i leggibili, tra quegli scrittori cioè che si sono serviti della lingua senza lasciarsene mai sopraffare.

Romanzi come racconti

Giocando alle associazioni, viene da affiancarlo d’impulso a Honoré de Balzac e Charles Dickens. In Simenon si trova lo stesso talento affabulatorio, la semplicità che non rinuncia alla complessità, il pop. Balzac, Dickens e Simenon sono come un paio di jeans: impossibile non averli in libreria (e nel guardaroba).

A differenza dei due mostri sacri del XIX secolo, che hanno scritto cicli efferati e romanzi monstre da feuilleton, la modernità di Simenon sta anche nell’aver scritto un’opera esplosa, iper parcellizzata. La Comédie humaine di Simenon è fatta di romanzi che spesso somigliano a racconti. Simenon forse è il primo a scrivere romanzi come se fossero racconti, da cui si comprenderebbe almeno in parte il mistero della sua creatività debordante, irrefrenabile. Avrebbe voluto scrivere racconti, ma gli sono usciti fuori romanzi, la maggior parte dei quali hanno una paginazione ibrida, anfibia, tra breve e lungo, ormai quasi paradigmatica - si potrebbe parlare a ben ragione di una lunghezza (cioè di una scansione, di un respiro, di una ritmica) alla Simenon.

Non fa eccezione questa ultima pubblicazione nella Biblioteca Adelphi, Le sorelle Lacroix, una storia familiare che per le sue dimensioni ridotte sembra fare anche la parodia della classica saga, una vicenda fosca di ripicche, vendette e odio. Simenon sembra voler dire che per raccontare l’essenza di una famiglia non occorrono chissà quante pagine di pachidermiche digressioni, arzigogolati flash back, folle di generazioni, lambiccati ragionamenti araldico-genealogici. Basta raccontare la storia del sangue, d’accordo, ma di quello che scorre (alla lettera o metaforicamente, poco importa).

Vertigini

Poche righe e siamo già lì, a recitare il rosario in chiesa insieme alle sorelle Lacroix, e chi legge sa di non avere più scampo (e forse non basterà neppure finire la lettura per liberarsi della vicenda cruda, del contesto plumbeo, di questa stolida famigliola notarile). «… piena di grazia, il Signore è con te… piena di grazia, il Signore è con te…». Entrare dentro un romanzo attraverso una preghiera, siamo oltre un attacco in medias res, stiamo scivolando su un piano terribilmente inclinato, siamo dalle parti della verticalità del racconto: leggendo Simenon si possono avere le vertigini, ed è uno dei primi (e dei pochi) ad aver capito che la velocità non era un elemento letterario che poteva essere regalato alle scritture sciatte e agli pseudo scrittori.

C’è una pingue vulgata critica che fa coincidere la velocità con la superficialità: ha letto distrattamente Simenon. Ma Simenon è meglio con o senza Maigret? Questione di lana caprina. Non esistono due Simenon ma uno soltanto. Nei Maigret il genere giallo – che pure con lui ha saputo rinnovarsi e raggiungere un nuovo picco – subisce sempre uno sfondamento, la pagina si eleva sempre verso la letteratura; nei non Maigret si assiste al movimento opposto e la letteratura non incorre mai nelle secche della pagina ben scritta e fine a se stessa, nell’Arcadia dell’autocompiacimento, e riceve un corroborante contrappeso dalla concretezza del genere.

Per verificare di persona è possibile pescare due volumi dal nostro scaffale – un non Maigret e un Maigret – e aprire pagine a caso. Ne Il destino dei Malou si possono leggere osservazioni acutissime sorrette da descrizioni terra terra: «Corinne era bella. Lo dicevano tutti che era bella, mentre Alain avrebbe voluto avere una sorella come ne avevano i suoi compagni di scuola, una di quelle ragazze che è impossibile immaginare nude». In Maigret si sbaglia viceversa possiamo incappare in passaggi d’atmosfera illuminati da sprazzi di pura letteratura: «La biblioteca, poi, era ancora più grigia, male illuminata e silenziosa come una chiesa vuota. A quell’ora c’erano solo tre o quattro persone, probabilmente frequentatori abituali, immerse nella consultazione di libri polverosi».

Avendo a che fare con Simenon, si ha sempre la sensazione balsamica che in fin dei conti uno scrittore debba dedicarsi a un’unica attività: scrivere. Senza girarci troppo intorno. E che la differenza tra un capolavoro e un romanzetto di serie B non esiste, se a scrivere è un vero autore. Lui stesso ha dichiarato: «Scrivere un romanzo è mettersi nei panni di un personaggio, è creare un gruppo sociale qualsiasi, cinque, sei, sette persone, poco importa: dunque ci sarà un personaggio centrale, e bisogna solo entrare il più possibile in questo personaggio centrale».

Simenon in fondo fa sempre la stessa cosa, con o senza Maigret, cioè indaga nella mente dei suoi personaggi. La sua è senza dubbio una letteratura psicologica senza essere appesantita da nessuna terminologia scientifica né tantomeno da qualche forma di stream of consciousness. Che ci sia un narratore onnisciente, un terzo occhio che dall’alto vede e analizza, oppure un commissario che arriva alla verità attraverso una serie di deduzioni e controdeduzioni, la calotta cranica è lo scrigno della verità. E in ambedue i casi a Simenon interessa la verità della piccola borghesia. Una classe che sa di nebbia e di minestra, di calvados e di nicotina. Portinaie, baristi, prostitute, agenti di commercio, bottegai, camerieri, tassisti. Non è la classe sociale più interessante, ma di sicuro è la più larga, la più popolosa. A Simenon fa piacere dirci che non c’è azione ignobile o delitto che non sia alla portata di tutti. Come un paio di jeans.

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