Queste righe parlano di trasformazione, di diritti e di frutta. Parlano di quello che sono in grado di dire pensando all’opera di Michela Murgia. La prima cosa che sono in grado di dire è che quando si riesce a spostare l’asse del dibattito sui diritti, ad ampliarne il raggio e la possibilità di fruizione (ad ampliare quindi, le possibilità della democrazia che abitiamo) è difficile che questo accada senza mettere in mezzo il corpo.

La seconda cosa è privata ma è anche pubblica, perché l’ho già scritta da qualche parte. Una volta, molti anni fa, ho sognato una persona che non c’era più, perché in effetti era morta da pochi giorni. Nel sogno mi diceva di mangiare molta frutta. La capacità di trasformazione, ovvero di agire sul mondo circostante incoraggiandolo a evolvere, sta in tutte le persone (seppure fermo, dormiente, o al servizio di forze dubbie). Tuttavia sarebbe ingenuo negare che in alcune è un attributo più forte che in altre. In quei casi, lo spostamento d’aria generato in vita continua a trasformare in morte. Anche per questo, molti anni fa, la mia alimentazione è cambiata. Adesso mangio molta più frutta.

Il vuoto colmato

Un’altra differenza rispetto al mondo di una dozzina di anni fa, è che il dibattito sui diritti del mondo del lavoro e sulla necessità di ammortizzatori sociali versa nell’atrofia. La precarietà, lungi dall’essere una fase, è stata accettata come strutturale. La polverizzazione del welfare appare un processo inevitabile. Nel 2011, quando sembrava che tutto fosse ancora in gioco, lavoravo in un callcenter outbound.

Per raggiungerlo attraversavo un centro commerciale dentro al quale c’era anche una libreria. Nei giorni del training ci sono entrata sperando di trovare uno specifico libro, perché era esattamente quello che desideravo leggere in quel momento.

Data la collocazione della libreria non ci contavo troppo, e invece Il mondo deve sapere di Michela Murgia l’ho trovato subito. Quella lettura non ha solo reso i miei giorni da precaria più allegri nonostante tutto, ha anche reso tutti gli altri giorni da lavoratrice (a prescindere dal tipo di lavoro in cui ero intenta) più consapevoli.

Per un tempo lunghissimo Michela Murgia ha davvero sopperito al vuoto di una sinistra inadeguata, persa in uno scollamento borghese dalla realtà che ha creato ferite e fratture profonde. Murgia è entrata nel mondo letterario, culturale e intellettuale italiano con una detonazione che aveva a che fare con i diritti sociali.

Negli anni in cui ha continuato, incessantemente, a scrivere a pensare e a comunicare, la costruzione di una nuova e più ampia cultura dei diritti civili che è arrivata fino a God save the queer (in saggistica) e a Tre ciotole. Rituali per un anno di crisi (in narrativa), è stata, è e continuerà a essere così potente anche perché Murgia non ha mai considerato che le diverse anime del diritto potessero essere scollegate. Nello svilupparsi delle sue teorizzazioni e delle sue pratiche, non è rimasto indietro nessuno.

La letteratura della fine

Così è stato anche con la letteratura (la teorizzazione, la pratica) della fine. Il morire e la morte non sono compartimenti stagni separati dal vivere e dalla vita. Questa idea è stata veicolata attraverso la comunicazione degli ultimi mesi. Questa idea è stata narrata quattordici anni fa nel romanzo premio Campiello Accabadora, opera che ha trattato di eutanasia e di filiazione d’anima (tema affrontato anche in Chirù, nel 2015) quando la maggior parte delle persone non osava neanche pensare di poter desiderare (o avere diritto a) l’una o l’altra.

Autodeterminare la propria vita, la propria rete di affetti e la propria morte stanno insieme. Possiamo farlo, e se qualcuno o qualcosa cerca di impedircelo possiamo volerlo, chiederlo, pretenderlo. Esprimere, con le parole scritte e parlate questo pensiero e questo vissuto, è stato forse il più grande esempio di death education che il nostro paese abbia mai avuto.

Il potere trasformativo della morte agisce nel tempo, non ci si accorge subito di quello che accade perché si è immersi all’interno della mutazione. In un movimento oscillatorio si attraversa una parte di inusuale lucidità e una parte di ottundimento che, in alcuni casi, permette di vedere e connettersi con quel che è meno visibile nel piano della realtà. Quando questa oscillazione gradualmente sfuma, qualcosa è cambiato: in noi, negli altri, e nelle relazioni che ci legano e collegano agli altri. Quasi sempre questo processo accade in forma individuale o comunque privata, con un raggio che comprende piccoli nuclei e gruppi, famiglie e aggregazioni della più varia natura. È più raro che la trasformazione si riverberi in una società. È più raro, ma accade. Il lavoro della death education è anche quello di rendere consapevoli le persone di questo processo, di riavvicinarle dunque a una dinamica intrinseca all’esistenza ma con cui abbiamo perso il contatto. Il lavoro della death education è complesso, perché è complesso prendere per mano le persone e dir loro: accadrà questo, è inevitabile. Accadrà al singolo e accadrà a una comunità, ci sarà anche la paura, ma ci sono molti modi per provare e costruire altri sentimenti e possibilità.

Michela Murgia lo ha fatto dandoci l’opportunità di accelerare il passo (correndo avanti, ancora una volta, ma senza lasciare indietro) e uscire dal pantano della negazione. Per l’ennesima volta, in questo percorso si è reso chiaro che in ballo non c’era solo una questione di affetti e sentimenti, ma una gamma enorme di diritti. Nella prima pagina di Accabadora (Einaudi, 2009) e nell’ultima di Tre ciotole. Rituali per un anno di crisi (Mondadori, 2023) che sia violento o calante, c’è il sole. Quando anche la accettiamo e la abbracciamo, nei libri e nelle idee ci sono forme di eccezione all’impermanenza.

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