Che fine ha fatto György Lukàcs? Considerato fino a qualche tempo fa tra i pensatori più importanti del Novecento, si fatica oggi a trovare in libreria le sue opere. Eppure la sua riflessione sulla condizione umana nella società industriale aiuta a gettare luce sul malessere contemporaneo. 

La pubblicazione simultanea dei quattro tomi della sua postuma Ontologia dell’essere sociale, a cura di Carlo Formenti per Meltemi, costituisce quindi un piccolo evento utile a gettare luce su un autore che ha avuto un’influenza determinante sui grandi dibattiti del secolo breve. Questo, per giunta, proprio nell’anno del centenario della sua opera più influente, Storia e coscienza di classe, pubblicata nel 1923.

Dal romanticismo al marxismo

Nato nel 1885 in quello che ancora era l’impero austro-ungarico, a Budapest, Lukàcs recepisce in giovane età l’influenza della cultura tedesca del suo tempo, ancora impregnata di romanticismo: ovvero una visione tragica della modernità come epoca di caos etico ed estetico, nella quale appare scombinato il rapporto tra coscienza individuale e convenzioni sociali. L’epoca dei masnadieri di Schiller, del giovane Werther di Goethe, o ancora del Michael Kohlhaas di Kleist, i primi tormentati kamikaze d’occidente. 

Da illustri maestri come Georg Simmel e Max Weber, il pensatore ungherese (o meglio: austroungarico) trae l’idea di una tendenza storica inarrestabile verso la reificazione e la razionalizzazione, incarnata dalle trasformazioni del lavoro, dello stato, del diritto e incompatibile con le aspirazioni umane di autenticità e autonomia. Il fascino della rivoluzione russa, nel 1917, spinge Lukàcs ad abbracciare il comunismo e a tradurre questi spunti tardo-romantici all’interno di una cornice marxista: nascono così i saggi raccolti in Storia e coscienza di classe. Eppure l’incubo di razionalizzazione denunciato in quelle pagine non era poi tanto diverso dal “taylorismo di stato” che stava nascendo, all’insaputa di molti, proprio in Urss.

Lukàcs rinnegherà continuamente quel libro nel mezzo secolo successivo: troppo romantico, troppo idealista, soprattutto troppo lontano dall’ortodossia sovietica alla quale si sarebbe legato politicamente. Storia e coscienza di classe, in effetti, opponeva alle derive scientiste del materialismo un approccio umanistico e dialettico, nel tentativo di conciliare l’anima soggettiva con le forme sociali. Il proletariato vi appare qui come la classe in grado di raggiungere una superiore consapevolezza della natura feticistica del capitalismo.

Era una teoria della contraddizione più morale, estetica, culturale che meramente economica; dialogava con le ansie del suo tempo sulla crisi della civiltà, segnata dalla burocratizzazione e dalla divisione scientifica del lavoro.

Condanne e abiure  

Una visione inaccettabile per il Komintern, al quale il filosofo scelse di restare fedele, firmando abiure imbarazzanti e ancor più imbarazzanti scritti in onore di Lenin e Stalin. Eppure nemmeno le abiure bastarono a contenere l’onda d’urto di quel libro, testo fondatore del cosiddetto marxismo occidentale: un marxismo da filosofi, che contro l’interpretazione sovietica insisteva sul contributo del giovane Marx (presto sarebbero stati scoperti i suoi manoscritti del 1844) e sull’influenza di Hegel.

Negli anni 1920 la visione di Lukàcs influenzò i giovani studiosi che animavano la Scuola di Francoforte, e da lì il dibattito americano sulla società dei consumi, negli anni 1940 gli esistenzialisti parigini e negli anni 1960 venne riscoperta dalla generazione che in aperta rottura con il Partito Comunista si apprestava a fare il ‘68. Così per tutto il secolo il filosofo austro-marxo-ungarico potrà essere citato sia come custode dell’ortodossia che come patrono dell’eterodossia. Si leggano le pagine del Guy Debord di Anselm Jappe (appena uscito per Mimesis) per misurare, ad esempio, l’influenza lukacsiana sulle idee della Società dello spettacolo.

Al tempo delle “Grandi dimissioni” pare tanto più utile rileggere i tentativi del filosofo per interpretare il disagio occidentale con categorie che non siano esclusivamente economiche, pensando la sovrastruttura culturale assieme alla struttura materiale. Anche fenomeni recenti come l’intelligenza artificiale o il trionfo della razionalità logistica (tema a cui Cesare Alemanni ha appena dedicato l’agile La signora delle merci, per Luiss University Press) possono essere interpretati alla luce del pensiero di Lukàcs sul capitalismo come sistema di pianificazione e calcolo su scala sempre più grande.

L’oblio che circonda il suo nome colpisce tanto più se pensiamo che al cuore del canone filosofico novecentesco pare invece inscalfibile la posizione del contemporaneo Martin Heidegger, e ciò malgrado il suo legame con il nazismo. Il pensatore tedesco aveva avuto l’accortezza di rendere potabile l’antisemitismo dissimulandolo sotto le spoglie dell’ontologia.

Eppure il suo Essere e tempo, del 1927, è considerato da molti proprio come una risposta a Storia e coscienza di classe. Là dove Lukàcs denunciava l’alienazione indotta dalla divisione burocratico-capitalistica del lavoro, Heidegger sviluppa la sua concezione dell’inautenticità dell’individuo come oblio dell’essere. Voci dissonanti in un dibattito – da quale terribile malattia è afflitta la civiltà moderna? – che era anche quello in cui intervenivano Sigmund Freud, Karl Jaspers, Simone Weil e tanti altri.

Un altro Lukàcs 

È però un altro Lukàcs, più tardo, quello che Formenti riporta in libreria oggi con l’Ontologia dell’essere sociale, originariamente pubblicato in tedesco nel 1973. Fin dalla prefazione il curatore prende le distanze dai testi romantici della gioventù, coerente con una tradizione (malignamente si dice: veteromarxista) che ha rifiutato in un sol colpo il giovane Lukàcs, il giovane Marx e il giovane Hegel per individuare una serie di “rotture epistemologiche” dalle quali sarebbe nato il marxismo come vera scienza. Formenti, a tal fine, contrappone le posizioni espresse dall’autore a cinquant’anni di distanza. Difficile non vedere, in questa diatriba altamente teorica, un regolamento di conti con quel pezzo di sinistra che dal 68 in poi ha usato le idee del giovane Lukàcs come acido per corrodere il marxismo.

Ma sono poi davvero così diversi il primo e l’ultimo Lukàcs? Dall’opera del 1923 a quella del 1973, il cruccio del filosofo austro-ungarico è sempre stato quello di trovare una terza via tra l’idealismo astratto e il materialismo meccanicistico. L’ontologia dell’essere sociale, a leggere Formenti, risponderebbe precisamente all’esigenza di radicare la questione dell’essere nella sua storicità, articolata dialetticamente.

Dalla prima all’ultima opera, insomma, è sempre e ancora lo stesso programma di ricerca a muovere Lukàcs, quello di Goethe e Schiller, seppellito sotto strati e strati di dottrina marxista: risolvere la separazione originaria sulla quale si è istituita la modernità. Per questo, forse, nel corso degli anni il filosofo si era sforzato in ogni modo di espellere l’elemento reazionario dal romanticismo politico, e quindi anche da sé, come nella sua tanto vituperata Distruzione della ragione.

In questo senso, muovere il vecchio Lukàcs contro il giovane non permette di liberarsi dalle scorie romantiche, ritrovando un fantomatico "vero" marxismo, ma solo di occultarle meglio: perché esse sono costitutive della sua opera, della sua forza e dei suoi limiti. Un’opera fatta di tensioni libertarie, di ripieghi dogmatici e di retaggi passatisti, opera ambigua che in nuce racchiude le ambiguità dei movimenti del Novecento, opportunità rivoluzionarie e rischi fatali.

Lukàcs non si riconobbe mai nel ritratto che gli fece Thomas Mann della Montagna incantata, nei panni del gesuita Naphta: il personaggio gli parve semmai incarnare un “prefascismo mistificatorio”. Consapevole della verità racchiusa nelle rappresentazioni artistiche, il filosofo sembra aver passato il resto della sua vita a tentare di confutare quel ritratto compromettente.


György Lukács Ontologia dell’essere sociale I (Meltemi 2023, pp. 478, euro 30) 

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