Le mimose sono fiorite in anticipo. Non qualche giorno, diverse settimane. Già a inizio febbraio l’albero del giardino dei miei brillava di un giallo impertinente. Non sono un esperto di botanica, sia chiaro. Lo ripeto a tutte le persone che vedono casa mia invasa di piante. Le ho prese per solitudine e per un facile modo di arredare una casa senza impegnarmi troppo con quadri e altre cose appese.

Ho capito che le piante d’appartamento hanno bisogno di poca luce diretta e di molta meno acqua di quella che pensiamo. Ottima combinazione quindi l’esposizione a nord di casa mia e la mia congenita avversità a una costanza nella cura delle cose.

Non mi idrato io a sufficienza, figurarsi se idrato le mie piante più del minimo necessario. Un giorno dovrò scrivere un articolo su come la maggior parte delle persone si ritengano pollici neri quando in realtà fraintendono il senso della cura di cose che tendenzialmente non ci si filano, come le piante. Le attenzioni vanno dosate, non siamo i protagonisti delle loro vite, anche se gravitano nella nostra. E questa cosa apre a numerose similitudini con i rapporti personali, e mi sento come Carrie Bradshaw, ma meglio non divagare, non è questo l’argomento di questo articolo.

In competizione

Le mimose, dicevo, sono fiorite in anticipo. Un’ansia da performance, sicuramente influenzata dal contesto, un inverno decisamente molto primaverile. E magari non ci fossero più le mezze stagioni, signora mia, è che proprio non si capisce più niente. Non lo capisco io quando devo vestirmi, figurarsi la povera mimosa. Eppure quest’ansia da prestazione che ci porta a bruciare le tappe è una tendenza anche così umana, no?

Forse perché siamo consapevoli del tempo limitato che abbiamo, ma forse anche perché viviamo in una società che impone questo tipo di competizione con noi stessi e con gli altri: o performance, o nulla.

Ecco qua, l’ennesimo pezzo di un millennial che si lamenta della contemporaneità, dimenticando il privilegio dal quale guarda le cose, stigmatizzando comportamenti e caratteri umani che sono naturali e immanenti.

Precedenze

No, non penso sia una cosa propria della contemporaneità, almeno non solamente.

Cristoforo Colombo, per dirne una, cercava una via breve per le Indie. Sul fatto che, partendo dalla Spagna verso ovest si arrivasse in India, prima o poi, nulla da dire. Che fosse la via più breve, ecco, insomma. E quindi, che fai? La prima terra emersa che incontri decidi che sei arrivato in Asia e diventi Governatore delle Indie Spagnole. Tralasciamo anche il susseguente genocidio delle popolazioni native, non è questa la sede.

Per certe cose ci vuole tempo, e pazienza. Ci penso sempre quando mi immetto in tangenziale: il codice della strada, e un minimo di logica e cautela, vorrebbero che io avessi la precedenza rispetto a chi deve invece uscire qualche centinaio di metri più avanti.

E invece niente, mi ritrovo sempre a non sapere come fare per entrare, perché di solito trovo qualcuno che si lancia nella mia corsia per assicurarsi il primo posto e uscire ad alta velocità. Dite che non è ansia da prestazione, è solo essere cafoni? Forse sì. Bret Easton Ellis inizia il suo primo romanzo, Meno di zero, dicendo che "La gente ha paura di buttarsi nel traffico delle autostrade a Los Angeles", ma la tangenziale di Milano non è da meno.

Tornare a twerkare

A forza di parlare di ansia da prestazione, sto perdendo il filo, e forse è un bene, ma chiedo comunque scusa ai lettori. È che faccio un sforzo quotidiano per ricordarmi che per le cose ci vuole tempo e pazienza. E che comunque, nessuno è lì in attesa a giudicare la mia performance, non con la pressione e l’attenzione che percepisco io, per lo meno.

Lo vivo in questo periodo di passaggio: per la seconda primavera (in anticipo) di fila sembra che questa pandemia stia mollando un po’ la presa. All’orizzonte, la fine dello stato di emergenza e delle restrizioni. Attorno a me, la pressione di abbracciare questa prospettiva con entusiasmo e impazienza, senza spazio per dubbi ed esitazioni.

Da due settimane hanno riaperto le discoteche. Chi mi conosce sa quanto mi piaccia ballare, ho un discreto seguito online solo per dei video in cui twerko davanti ai miei genitori o davanti a delle mucche in montagna. In entrambi i casi, nella totale indifferenza degli involontari spettatori.

Quando il fisioterapista mi ha detto che devo correggere l’ipermobilità dell’anca per risolvere i fastidi alla schiena, sono stato tentato di scappare e ignorarlo, perché questo bacino ipermobile che mi rende la Shakira di Lambrate non ha nulla che non vada.

Insomma, vorrei tanto tornare a ballare, ma non me la sento ancora. Non sono pronto a gettarmi nella calca – e in parte anche di andare a letto alle 4.

Senza fretta

Eppure sento la pressione di dover ignorare le mie paure e tirare fuori la spavalderia che gli altri si aspettano da me. Tre vaccini, una curva discendente dei contagi e un’anca ballerina, cosa aspetto? Però se poi vado in discoteca e passo una serata in ansia e non mi godo nessuna delle hit che negli ultimi due anni ho ballato in salotto?

Ci vuole tempo, mi ripeto. E mi ripeto anche uno dei proverbi preferiti da mia madre, «La gatta frettolosa ha fatto i gattini ciechi». Ora che lo scrivo mi chiedo: un po’ abilista?

Mi correggo, tirando sempre in mezzo mia madre. Ogni volta che d’inverno gli alberi da frutta iniziano a fiorire, la vedo in pensiero perché sa bene che basta un cambio di temperature, i classici ultimi giorni di freddo prima di Pasqua, per bruciare gran parte dei futuri frutti.

Tutto con i tempi giusti, e così eviti di bruciarti.

Allergia

Insomma, questo giro di parole per dire che non mi sento pronto per andare a ballare, ma sento un’ansia da prestazione e il conseguente bisogno di giustificarmi con i miei amici e con i lettori di Domani?

Forse sì, ma non del tutto. Oggi è la riapertura delle discoteche, domani sarà un’altra occasione in cui dovrò ricordarmi che per le cose ci vuole tempo. Alla fine, la riflessione malinconica come fossi Carrie ce l’ho infilata, eh.

E quindi ora, con le mimose fresche diverse settimane prima dell’8 marzo, cosa diamo alle donne? Visto che di equità salariale, rispetto e effettivi pari diritti non se ne parla? Forse per allora saranno fiorite le ginestre, tipico fiore di maggio, e altrettanto giallo. Sporca pure meno, e non sono allergico.

Quando andavo al liceo, in una classe a maggioranza femminile, l’8 marzo era per me sempre uno dei picchi di allergia dell’anno. (Notare, l’ennesimo uomo che riporta su di sé e sulla propria esperienza l’occasione della Giornata internazionale della donna).

Se all’epoca avessi conosciuto il potere di una mascherina Ffp2, mi sarei risparmiato riniti, occhi gonfi, antistaminici e conseguente sonnolenza devastante.

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