Questo è un pezzo di giornalismo investigativo. Meriterebbe quasi un podcast di Pablo Trincia, ma andiamo per gradi, partiamo dal principio. Tempo fa mi sono ritrovato a un mercato di abiti usati e visto l’incipiente autunno, mi sono deciso a frugare tra montagne di capispalla - bella parola vero? La associo sempre non chiedetemi perché a feldmaresciallo.

Oversize

Montone? No, nella mia esperienza sono un biglietto di sola andata per la rinite allergica. Bomber da paninaro anni Ottanta? Non ho la verve per la streetwear, finisco per sembrare uno scappato di casa di notte per una fuga di gas a cui hanno prestato dei vestiti i vicini.

Giacca di renna? Un look a cui ho ambìto spesso, classica domenica di ottobre a Capalbio, ma vivo a Milano e la indosserei sei ore in un anno. Finalmente trovo ciò che fa per me: il Loden. Un classico: istituzionale come un Governo tecnico, usurato il giusto a ricordare la Prima Repubblica, con maniche raglan che fanno spalline moda Milano, oversize non voluto perché con il vintage ti prendi ciò che trovi.

La perfetta cappottessa, nome da me coniato per definire quei pastrani scomodi e appariscenti che non indossi, ti indossano loro, un po’ carabiniere col mantello un po’ Mangiamorte che ha studiato alla Naba, l’accademia delle belle arti.

Economia circolare

Finisco per prenderne: uno nero, uno blu notte, uno grigio fumo. A un metro di distanza sembrano tutti: neri. Non contento, ne compro anche uno grigio e nero pied de poule – quella fantasia che conosciamo tutti ma raramente ci ricordiamo come si chiama, ecco il mio regalo per voi oggi.

E perché non aggiungerne uno color cammello? Per molti motivi, per primo il fatto che il beige mi sbatte, ma lo prendo comunque.

Un grande affare, 15 euro a capo. Le meraviglie dell’economia circolare – dove a circolare era esclusivamente il contante, guai se provavi a proporre la carta a quel banco.

La lavanderia del misfatto

Comunque, due anni di pandemia mi hanno insegnato a diffidare del mio stesso alito, figuriamoci dodici chili di lana passata di mano in mano per gli ultimi trent’ganni, quindi vado in lavanderia, ed è qui che inizia il misfatto.

Pagare il lavaggio più di quanto ho pagato i capi, direte voi. No, ci arriviamo. Li consegno al signore alla cassa, in lontananza lo sguardo vuoto di una signora (la moglie? O forse la complice?) che mi fissa mentre stira. Mi dice di tornare la settimana successiva, ma quando torno, non sono ancora pronti, mi dice, cosa mi credo, questi sono di lana, ci vuole un po’.

Sembra la scusa con cui rimando il lavaggio dei miei maglioni, perché ho esperienze passate di cardigan in lana trasformati in deliziosi bolerini per bambini di 12 mesi. Avere una lavatrice non fa di me una persona in grado di usarla, memo per il futuro.

Mi richiama il giorno stesso: «No guardi signora, in realtà alcuni cappotti sono pronti». Capita che mi chiamino signora, ho la voce di mia madre. Ma dico io, rimani sul generico, no? Decido però di non mettermi a spiegare come si pronuncia lo schwa, né che quelli in realtà si chiamano cappottesse, e vado a ritirarle.

Saracinesca abbassata

Torno due settimane dopo e trovo un cartello: “chiuso per ferie”. Beati loro, penso, tanto ho di che coprirmi. I due che mancano, quello grigio fumo e quello cammello, li prenderò poi.

Torno dopo due settimane ancora, ormai è quasi inverno, e il cartello di ferie è ancora là. Un po’ strappato, rovinato dalla pioggia. Che strano, mi dico, ma con quello che costano certi lavaggi, immagino ci sia del margine per un mesetto a Maiorca.

Arriva Natale, e con esso quella confusa successione di giorni che improvvisamente ti catapultano a metà gennaio. I miei cappotti! Me ne ricordo, me lo segno su un post-it e dopo diversi giorni, non meno di quindici, mi decido a passare.

Il cartello di ferie non c’è più, ma la saracinesca è ancora abbassata. Provo a chiamare, mi dice che il numero non è attivo. Inizio a insospettirmi. Se potessi insospettirmi con un cappotto cammello sarei ancora più credibile, sembrerei Alain Delon, ma niente, devo accontentarmi di un meno fascinoso ma sicuramente diffidente Mario Monti.

Inizia l’ossessione

Quella saracinesca diventa la mia ossessione. Inizio a passarci davanti in diversi momenti della giornata. Faccio appostamenti in auto, cammino con una copia di Domani davanti alla faccia, indosso dei grandi baffi biondi sopra i miei castani per camuffarmi.

Niente, sempre abbassata. Cosa ci sarà dietro? La lavanderia, certo, ma non intendo fisicamente, intendo: e se ci fosse un piano segreto per impossessarsi dei miei cappotti? Ma a cosa potranno servire? A chi? Non voglio sembrare mitomane, ma se fossero i costumi per la prossima conferenza di Jalta, a chiusura della crisi ucraina? Dite di no? Boh, io la butto lì.

Un’altra chiamata

Forse la lavanderia è solo una copertura, dopotutto il riciclaggio in inglese si dice money laundering, letteralmente lavaggio di denaro sporco.

Basta, devo indagare. Sbircio sotto la saracinesca e trovo una busta. La corrispondenza privata è inviolabile, ma mica la apro. Accanto al destinatario c’è una frase stampata: “Rispondi alla chiamata”. Qualcun altro che ha provato a contattarli? Giro la busta, il mittente è la parrocchia vicina, la chiamata è quella del Signore, ma temo per Lui che resterà deluso, come me.

Titolino

C’è una signora alla fermata del bus, la riconosco dai miei diversi appostamenti, mi avvicino e le chiedo informazioni, anche se si vede che si lava tutto da sola, e pure bene. «Ma si ricorda quel signore in cassa?». «Sì, salutava sempre». Ennesima conferma dei miei sospetti.

Accanto alla saracinesca chiusa c’è un sarto. Entro e chiedo come mai la lavanderia fosse chiusa. Il sarto a malapena mi degna di uno sguardo, spilla in bocca, fa spallucce. Che sia un complice? Noto alle sue spalle numerosi stand carichi di abiti, alcuni coperti di plastica.

Forse li sta rivendendo? Ricettazione? Continuo a fare domande per prendere tempo, e intanto sbircio per vedere se ci sono un cappotto cammello e uno grigio fumo che sembra nero.

«Ma quindi non sa come mai?». 

«No» 

«Ma lei quindi è un sarto?». Mi guarda e non risponde. «Questi vestiti li ha fatti lei?». 

«No sono riparazioni».

Riparazioni a un torto subito? Non credo. Rinuncio, non ho un mandato di perquisizione né sarei comunque un poliziotto.

Accanto c’è un’agenzia immobiliare, ma soffro di stress post traumatico da acquisto di casa, non riesco fisicamente ad entrare senza avere le vertigini e il fiato corto.

Deus ex machina: il barista

Entro infine in un bar, dove prendo un Martini agitato, non mescolato, e con fare casual chiedo informazioni. Il barista non mi dà soddisfazione, avrei voluto rispondesse «Chi lo chiede?», così da farmi tirare fuori il portafogli e mostrare il distintivo, che poi sarebbe la carta Esselunga.

Mi dice direttamente: «Ha chiuso. Ora ci fanno un parrucchiere credo».

Mi sento confuso, disorientato, ma forse è il Martini a stomaco vuoto. «Ma come ha chiuso?! Avevo due cappotti da ritirare!». 

«Hanno avvisato con un cartello, ultimi ritiri fino al 31 gennaio. Se uno alle cose ci tiene, si sbriga, se le va a prendere».

Grazie signor barista per avere impersonato il barista saggio tipico dei film americani.

Il colpevole

Esco barcollando. La mia indagine è conclusa: ho perso tempo, ho atteso troppo, e sono rimasto fregato. Un caso così semplice, la soluzione era evidente sin dal principio. Le vittime, due splendide cappottesse di seconda mano, l’arma del delitto, la procrastinazione, il colpevole: io.

La prossima volta, invece del loden, opto per un trench, almeno sembro un vero investigatore, come il tenente Colombo. E poi si lava in lavatrice.

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