Libri, quadri, fotografie e installazioni destinati all’oblio, ritenuti poco rilevanti proprio come le loro autrici. È il trattamento riservato per secoli alle opere di artiste. Sottovalutate, adombrate dal lavoro creativo del compagno, molte di queste artiste sono state lasciate fuori dai musei, dai libri di storia, dalla memoria collettiva o relegate a essere l’appendice o la musa del compagno artista e per questo accantonate da critica e pubblico.

È la storia di Zelda Sayre, di Josephine Hopper e di tantissime altre. È la storia Ana Mendieta, attivista, artista e performer cubana, scomparsa quarant’anni fa, nel settembre del 1985, in circostanze quantomeno controverse. Mendieta era una femminista, attiva anche nella lotta per i diritti delle persone migranti; univa performance provocatorie di body art a esempi di land art, ossia quel movimento artistico – attivo tra il 1967 e il 1978 negli Stati Uniti – che portava l’artista a intervenire direttamente nel paesaggio e sulla natura circostante.

Il corpo femminile 

La riflessione sul corpo femminile è stata al centro della sua arte: come racconta la scrittrice Claire Dederer nel saggio Mostri, edito da Altrecose nel 2024, una delle sue prime performance è stata Untitled (Rape Scene), realizzata nel 1973 quando l’artista frequentava ancora l’università dell’Iowa.

In seguito allo stupro di una studentessa, Mendieta invita il pubblico a entrare nel suo appartamento universitario: aprendo la porta, lo spettatore trova davanti l’artista stessa con slip abbassati, insanguinata e piegata su un tavolo. Il sangue è uno degli elementi che hanno caratterizzato la poetica di Mendieta, in quanto metafora di sudore, fatica e dolore.

L’opera coraggiosa di Mendieta entra in rotta di collisione con quella di Carl Andre, scultore statunitense esponente del minimalismo, con cui comincia una relazione. Nel 1985 Mendieta torna a New York dopo due anni trascorsi con Andre tra Roma e l’Europa: anni di ricerca, sperimentazione e successi in cui l’artista cubana ottiene anche prestigiosi riconoscimenti come il Rome Prize, un importante premio conferitole nel 1983 dall’American Academy di Roma.

La morte 

Tutto cambia, però, in seguito a una telefonata che Carl Andre fa al 911 una mattina del settembre 1985: «È successo che abbiamo…Mia moglie è un’artista e io pure, e abbiamo litigato perché a me fanno fare più mostre. È andata in camera e l’ho seguita ed è caduta dalla finestra». Il corpo di Ana Mendieta viene ritrovato in strada, nel quartiere del Greenwich Village, a New York, sotto la finestra dell’appartamento al 34esimo piano in cui l’artista viveva con il marito. Carl Andre viene arrestato dopo 12 ore con l’accusa di omicidio: le sue dichiarazioni contrastanti e un graffio sul naso convincono gli inquirenti a procedere con l’arresto.

A partire da quella telefonata – in cui Andre ipotizzava una presunta gelosia professionale della moglie – e durante l’intero processo, l’immagine di Mendieta viene screditata.

Come racconta la giornalista Jan Hoffman in un lungo reportage per il The Village Voice – quotidiano indipendente diffuso nel Greenwich Village, a New York –, la figura dell’artista viene svilita da una serie di stereotipi razzisti come quello della «donna ispanica con problemi di alcol». Inoltre, l’avvocato di Andre, Jack Hoffinger, allude a chissà quali legami tra la morte dell’artista e la presunta violenza riscontrabile nelle sue opere d’arte. Oggi per raccontare tutto questo potremmo parlare senza alcun dubbio di vittimizzazione secondaria.

Carl Andre viene assolto nel febbraio del 1988 e riprende subito il suo lavoro, mentre le opere di Mendieta vengono lentamente dimenticate.

Where is Ana Mendieta?

Nel 1992, sette anni dopo e molti anni prima del movimento Me Too, un gruppo di attiviste si unisce dando vita al collettivo Where is Ana Mendieta? che diventerà anche il loro slogan.

Una protesta che ha come obiettivo quello di riportare l’attenzione sull’arte di Mendieta, chiedendo giustizia per lei e per le sue opere, che meritano di uscire dal buio a cui erano state relegate dopo la sua morte. Il collettivo organizza per il marzo 2015 una protesta alla Dia:Beacon, un museo nello stato di New York che ospitava una retrospettiva su Andre: «Bring your own tears», scrivono le attiviste sul profilo Facebook del collettivo. Nelle sale del museo decine di donne danno vita a un lungo pianto collettivo, «di gioia e di terrore», per Ana Mendieta.

Grazie a queste proteste partecipate, le opere di Ana Mendieta sono tornate nel dibattito e nelle istituzioni culturali. A quarant’anni dalla sua morte, le cui cause non sono mai state chiarite, la Tate Modern di Londra ha annunciato che nel 2026 l’artista cubana sarà protagonista di una retrospettiva accanto ad artiste come Tracey Emin e Frida Kahlo.

Soltanto nove anni fa, la stessa Tate era stata oggetto di critiche durissime da parte del movimento Where is Ana Mendieta?, il quale aveva organizzato una marcia dalla St. Paul Cathedral alla Tate Modern per chiedere conto dell’assenza di opere dell’artista. Se Ana Mendieta non è stata dimenticata è solo grazie alle loro grida e alle loro lacrime.

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