Un viaggio tra arte, identità e memoria: Artemisia Gentileschi si autoritrae come pittrice e donna, Anna Banti la riscrive tra le macerie della guerra. Un doppio sguardo femminile che sfida l’oblio e trasforma il trauma in narrazione, ricucendo frammenti di storia e di sé
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola.
Guardiamo il quadro di Artemisia Gentileschi chiamato Allegoria della pittura, datato attorno al 1639 e appartenente da sempre alle Collezioni reali inglesi. C’è una donna ritratta di scorcio, nell’atto di dipingere. Con la mano destra tiene un pennello, con la sinistra la tavolozza, e torce il busto, sporgendosi affaticata e spettinata sulla tela. Dal suo collo vediamo pendere una maschera che ciondola da una catena d’oro. Proprio quel dettaglio, come quello degli strumenti di lavoro e dei capelli neri sparsi e ritorti, ci permette di riconoscere in questa immagine la personificazione della pittura, secondo le regole codificate dall’Iconologia, il famoso trattato di Cesare Ripa uscito la prima volta nel 1593, proprio nell’anno in cui era nata Artemisia Gentileschi.
Il quadro che stiamo guardando, che molto probabilmente fu eseguito in Inghilterra, quando l’artista aveva circa quarantacinque anni, è stato spesso definito anche come Autoritratto. In effetti, il volto raffigurato, pur essendo più giovane, sembra proprio quello di Artemisia (che però aveva i capelli biondi), il medesimo che possiamo riconoscere in molti altri quadri suoi o del padre Orazio. Tuttavia, l’interesse di quest’opera in quanto “autoritratto” – firmato con la sigla A.G.F. (: Artemisia Gentileschi Fecit) che si può leggere sul poggiamano in basso – non riguarda tanto e solo la somiglianza fisica; bensì il racconto di una coscienza di sé a cui può rimandare l’espressione, includendo anche questioni di identità legate al genere. Qui infatti c’è una donna che dipinge sé stessa nell’atto di dipingere, e così ci sta anche dicendo: “ecco chi so di essere, guardatemi”.
La maschera al collo, che sempre secondo le indicazioni di Ripa allude all’imitazione, rafforza dunque anche il senso di identità di una pittrice che rappresenta sé stessa, e stavolta senza travestirsi da santa, o da figura biblica, ma proprio come un’artista. Una tale consapevolezza autoriale, così moderna, diventa anche più significativa se consideriamo che fu proprio andando a vedere questo quadro, nell’estate del 1939, che un’altra donna, Anna Banti, ha trovato la forza di dire a sé stessa che era e voleva essere una scrittrice, dopo il primo libro di racconti che sarebbe uscito pochi mesi più tardi (Il coraggio delle donne, 1940). Banti infatti diventa definitivamente una romanziera scrivendo Artemisia (1947).
Anche la donna che si firma Anna Banti e che, nell’estate del 1939, a Londra, sta guardando l’Allegoria della pittura, indossa una maschera, uno pseudonimo. Anche per lei la maschera serve, in un certo senso, non a nascondere ma a dire meglio la sua opera. Assieme a questa identità, inventata per poter fare letteratura con «un nome tutto per sé», vivono infatti altre due donne.
C’è colei che fin dalla nascita (a Firenze nel 1895) si chiama Lucia Lopresti e dopo essersi laureata su uno scrittore d’arte del Seicento continuerà a scrivere testi da storica dell’arte; e c’è Lucia Lopresti coniugata Longhi, che esiste dal 1924, cioè da quando ha sposato uno dei più leggendari critici d’arte del Novecento; la scelta di un nome d’invenzione nasce anche dalla necessità di un’identità propria, che le consenta di essere riconosciuta come una scrittrice, evitando di esistere solo come la moglie di un uomo geniale. Collaborando con il marito, che preparava un intervento su Caravaggio e la sua cerchia (tenuto da Longhi in Inghilterra, a luglio, in occasione del Congresso Internazionale di Storia dell’Arte che sarà per Banti l’occasione del viaggio a Londra), nella Primavera del 1939 Banti aveva trascritto gli Atti del Processo per Stupro a cui era stata sottoposta Artemisia Gentileschi nel 1612, dopo essere stata abusata, a Roma, da Agostino Tassi, pittore e in quel momento suo maestro di prospettiva. Rileggere i passaggi di quella vicenda, oggi (a più di quattro secoli di distanza e a più di ottant’anni da quando sono stati letti e ricopiati da Banti), è doloroso.
Perché non sono così tante le differenze tra come fu trattata e considerata Artemisia e come, ancora nel 2025, è raccontato uno stupro, continuando troppo spesso, per esempio, a mettere in discussione la moralità della vittima; o accusandola persino di vittimismo; o guardando e raccontando morbosamente (: “appassionatamente”) la vicenda; o semplicemente assistendo con indifferenza agli eventi. «Vittima» «svillaneggiata» «di un pubblico processo» «per stupro» scrive Banti, nella prima pagina in cui ci presenta la sua protagonista, riportando alla luce e fondando, lei, proprio lei (anche se spesso si è dimenticato), un mito che ha camminato in tutto il mondo.
Attraverso la testimonianza di Artemisia, che accettò di sottoporsi alla tortura pur di dire la sua verità, e guardando i suoi quadri, Banti la riconosce, in un certo senso si specchia in lei, e decide di raccontarla. Lo fa proseguendo, ma in parte anche smentendo e superando lo sguardo di Roberto Longhi, che grazie al suo lavoro epocale Gentileschi padre e figlia (1916) aveva riportato all’attenzione l’arte di Orazio e Artemisia.
«È l'unica donna in Italia che abbia mai saputo cosa sia pittura, colore, impasto» affermò di lei Longhi, con una mossa critica risonante di ambivalenze paternalistiche, perché riconosce Artemisia nel momento stesso in cui le fa terra bruciata intorno, negando spazio a tutte le altre autrici, con l’aggiunta di un’ironia che oggi, per fortuna, è (abbastanza) passata di moda. «Eppoi date per carità alla Signora Schiattesi – questo è il nome coniugale di Artemisia – il tempo di scegliere l’elsa dello spadone che deve servire alla bisogna!» scherzava Longhi commentando una delle tele più note di Artemisia (Giuditta e Oloferne). «Valentissima», gli fa eco Banti, sulla pagina di apertura del suo romanzo, e «fra le poche che la storia ricordi».
Le sfumature sono importanti, non solo in pittura: le parole di Banti sono diverse da quelle di Longhi, perché fra le poche che la storia ricordi non significa, forse, l’unica brava, bensì una delle poche sopravvissute all’oblio. Dedicandole un libro che la rende memorabile soltanto con il suo nome, è come se Banti ci dicesse, anche replicando a Longhi, che quella donna non fu soltanto “la figlia di” Gentileschi, o “la moglie di” Pierantonio Stiattesi (sposato in fretta e lasciato presto). Artemisia è lei e basta: la sua vita e le sue opere possono parlarci da sole.
Banti dunque decide di rifare Artemisia. L’idea di riscrivere la vita di una donna, nel senso di ripensare come trasformare e ripensare una biografia, le arriva anche, probabilmente, da Virginia Woolf, di cui Banti tradurrà Jacob’s Room. In più, nel 1939 era uscito Lucrezia Borgia, di Maria Bellonci, autrice amica di Banti - cerchiamo di trattare con cura la parola: essere amiche per tante di queste scrittrici che strinsero alleanze, legami culturali, affettivi e epistolari significò trovare uno spazio, partecipare a un’epoca culturale e letteraria di cui furono protagoniste.
Ma come fare? Come fare a parlare di una pittrice eccezionalmente sfuggita al nero a cui la storia e la memoria pubblica hanno condannato le artiste e più in generale la storia e i destini delle donne? Le soluzioni che Banti sperimenta, da romanziera, sono procedimenti formali e narrativi che vanno considerati con sguardi liberati da stereotipi sessisti; per esempio parlando di “modernismo femminista” proprio per intendere modi nuovi di scrivere, anche a partire da nuove forme di coscienza e di identità di genere.
Per la scrittura di Anna Banti, per esempio, rifare Artemisia significa costruire una situazione narrativa capace di restituire luce a ciò che è stato distrutto e oscurato; si trattava di trasformare il buio e il trauma pubblico e privato della storia in una composizione romanzesca che procede per squarci e frammenti, attraverso un dialogo immaginario tra la narratrice e Artemisia, in quanto pittrice ma anche in quanto personaggia ricreata dalla fantasia della scrittrice, protagonista di un manoscritto originario perduto tra le macerie.
Artemisia non è un saggio, né un romanzo storico, e nemmeno una biografia classica, ma un testo di invenzione in cui si rielaborano documenti d’archivio studiati direttamente, intrecciandoli a competenze storiche, letterarie e critiche. Anna Banti reinventa un corpo narrativo pieno di voci femminili e capace di raccontare non solo quello che ha taciuto la storia, ma quello che le donne, dentro la storia, hanno taciuto a sé stesse e mantenuto in una «interna oscurità», ma che invece possono riscoprire e illuminare proprio raccontandosi a vicenda. Come se si trattasse del «gioco convulso» di «due naufraghe», scrive Banti, «che non voglion perdere la speranza di salvarsi su una botte».
Questa originalità di taglio e di impianto mostra anche come la pratica di svincolare il riconoscimento delle qualità delle opere d’autrice dalla storia di genere, secondo un’abitudine comune nel campo della critica d’arte come in quella letteraria, sia non solo ingannevole, ma proprio sbagliata, sia concettualmente sia stilisticamente. Non c’è una pagina del romanzo scritto da Anna Banti su Artemisia che non ci faccia sentire e vedere, attraverso la scrittura, il senso dell’unione inseparabile di elementi vissuti, storicamente, e resa pittorica del proprio lavoro, perché lo stile è un modo di stare dentro la vita, dunque una qualità esistenziale, oltre che formale.
Gli occhi di Artemisia, come ce li ha fatti ripensare Anna Banti, prestandole anche i suoi, hanno visto una scena di stupro animata da corpi che si ribellano alla violenza. Quella violenza ci è stata raccontata non solo all’epoca del processo del 1612, ma nell’arco di tutta un’opera – incluse le famose tele che raffigurano Giuditta e Oloferne.
Non è facile la scrittura di Anna Banti. Disintegrando l’interezza dei profili tradizionali dedicati alle donne, abbandonando il progetto del primo manoscritto di Artemisia, Anna Banti, con il suo romanzo fatto per frammenti e steso in una lingua composita, ci chiede di vivere anche questa verità: dove è passato un trauma, nulla è più intero. Perché dentro una vicenda di violenza sessuale esplodono, assieme alla scena e all’esperienza dell’aggressione carnale, molte altre storie di violenza simbolica e di offesa della vittima. Sono tratti comprensibili dentro gli assetti di una società e di una cultura: sono tratti sistemici; che possono aiutarci a capire, per esempio, perché il quadro di Artemisia Gentileschi più associato alla vicenda dello stupro, vale a dire Susanna e i vecchioni, intercetti e raffiguri così bene elementi forti della violenza di genere, pur essendo stato eseguito nel 1610, vale a dire un anno prima dello stupro testimoniato dal processo. (Pensate: un quadro dipinto da una giovane donna che in quell’epoca della sua vita sapeva scrivere a malapena il suo nome: inciso, nella tela, sulla pietra dietro il ginocchio destro). Considerare tutti questi aspetti non significa allontanarsi dai valori formali di un’opera, ma, al contrario, capirli meglio.
Nella sua prima stesura, perduta sotto i bombardamenti, Artemisia è una biografia, qualcosa di molto diverso dalla stupefacente seconda versione, pubblicata nel 1947 e che assomiglia a un cielo strappato. Il corpus definitivo di Artemisia è formato da venti lasse narrative, separate da una doppia interlinea. Tra l’undicesimo e il dodicesimo brano tre asterischi fissano uno scalino più alto. Il romanzo procede assecondando un sentimento chiaroscurale di sospensione tra il sonno e la veglia, perché, tra le macerie di Firenze bombardata, la narratrice, che ha perduto il manoscritto di cento pagine con la prima versione del romanzo, adesso riguarda, ricuce e tiene assieme, come può, immagini della vita di Artemisia, dialogando anche con lei: con questa bambina, ragazzetta, donna adulta e poi di mezza età che le parla e la ascolta dal milleseicento.
Siamo all’interno di un procedimento a specchio di personificazione e di reincarnazione formale e simbolica che certamente dialoga, in personale originalità, con il progetto narrativo di Orlando (1938), di Woolf: non solo perché Artemisia, nel corso del romanzo, si veste due volte da paggio, ma, soprattutto, perché, attraverso le diversità di concezione, di stile e di impianto, in entrambi i romanzi ricorre l’idea che fa da principio conduttore della trama del libro, vale a dire un movimento di frantumazione e relativa entrata e uscita dalla biografia in quanto discorso intero, per attraversare epoche diverse che mettano continuamente in gioco, attraverso i dislivelli temporali, anche questioni di genere.
La guerra, la distruzione sono una circostanza storica, ma al tempo stesso le macerie funzionano come occasione creativa: perdita e ricostruzione non rappresentano solo un evento, ma la rottura irricucibile di un mondo. Cercate le immagini di Firenze all’epoca dei bombardamenti nazifascisti, tra il 3 e 4 agosto 1944, e leggete il racconto di Banti raffigurandovelo dentro quel paesaggio distrutto.
Le macerie tra cui nasce Artemisia sono quelle della guerra, del manoscritto e della vita di una pittrice che la storia ha dimenticato o raccontato dentro la vita di altri: un padre, un marito, qualche amante. Nella nuova versione, la narratrice passa dalla trama cronologicamente lineare a un collage di venti frammenti, provenienti da una storia identica ma che, montati diversamente, producono una memoria e una coscienza narrativa diversa, piena di cicatrici. Siamo, tecnicamente, all’interno di un processo creativo e compositivo fatto di tagli e ricuciture che ricorre spesso nelle opere d’autrice, e che altrove ho chiamato “effetto Frankenstein” per comprendere meglio come le artiste abbiano spesso lavorato riutilizzando linguaggi e spazi che non le prevedevano.
Vedere questi procedimenti significa considerare la storia e le identità delle donne come un livello che si incrocia continuamente e creativamente con la scrittura (come con ogni altra forma di espressione), componendo un’identità che non è solo la storia di una. È l’autoritratto di tutte. «“Ma io dipingo” scopre Artemisia, risvegliandosi: ed è salvata».
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