E così, alla fine, è successo davvero: la realtà ha superato la fantasia. Anzi. L’ha proprio rimpiazzata. I personaggi larger than life stanno infatti progressivamente colonizzando cinema e tv rendendo di tendenza un genere che, fino a qualche anno fa, era spesso percepito come polveroso: stiamo parlando delle biografie o, come si dice adesso, del genere biopic.

Ovviamente la nuova espressione inglese è figlia della nostra impenitente esterofilia però, bisogna riconoscerlo, aiuta a trasmettere bene il nuovo sapore pop e contemporaneo acquisito dal filone.

Da alcuni anni a questa parte, le “storie vere” non nascono più solo per celebrare il passato e alimentare la nostra memoria collettiva, ma si aprono anche al presente per narrare la vita di persone, famose o comuni, che sono ancora in vita.

Gli esempi sono tantissimi e, per la maggior parte, tutti di successo: l’ultimo film autobiografico di Paolo Sorrentino È stata la mano di Dio; l’atteso House of Gucci con Lady Gaga; tutti i documentari possibili e immaginabili su Meghan Markle e (di nuovo) tutti i documentari possibili e immaginabili su Britney Spears; la contestata fiction su Mimmo Lucano, bloccata dalla Rai; il film Marx può aspettare di Marco Bellocchio sulla sua famiglia; il medical drama Doc, che trae spunto dalla vita di Pierdante Piccioni; la biografia Carla le cui riprese erano iniziate quando Carla Fracci era ancora in vita; nonché mezzo cartellone della 16esima Festa del cinema di Roma che inizia oggi.

La Festa del cinema

La manifestazione ha infatti tra i suoi appuntamenti cult il documentario Scalfari su Eugenio Scalfari; il biografico Inedita dedicato a Susanna Tamaro; il film evento Zlatan, che celebra Ibrahimović; la serie tv Vite da Carlo dove Carlo Verdone si ispira a Verdone, e via dicendo.

Il genere sta insomma vivendo una seconda giovinezza, caratterizzata anche da una crescente contaminazione tra informazione e racconto: la narrazione didascalica concede ormai sempre più margini alle licenze poetiche (si veda il dibattito su The crown 5 o sulla serie Leonardo) e sposa ritmi più accattivanti. In qualche caso si cerca addirittura il colpo di scena, trovandolo.

«I biopic possono tradursi in efficaci operazioni di immagine perché permettono alla star di mostrarsi sotto una nuova luce», spiega Eliana Corti, esperta di tv e redattrice del mensile Tivù, «chi l’avrebbe detto, per esempio, che la docu Ferro, invece di mostrare “solo” il lato artistico di Tiziano Ferro, si sarebbe focalizzata sulla sua lotta contro l’alcolismo? Ed era un aspetto intimo, un vero dietro le quinte, che avrebbe potuto raccontare solo lui stesso».

Il filone peraltro ha preso piede visto che, nel 2022, sarà la volta di Laura Pausini: anche lei ha promesso di rivelare, nella serie di Amazon a lei dedicata, un suo lato inedito. È chiaro però che raccontare la vita di una persona ancora tra noi genera un inevitabile effetto duplicazione: un gioco di specchi, a tratti surreale, soprattutto quando il diretto interessato viene interpretato da un attore.

Duttilità pratica

«Viviamo nella società dei selfie e delle stories sui social: un mondo all’insegna dell’autorappresentazione, e questo impatta inevitabilmente anche su cinema e tv», spiega lo sceneggiatore Francesco Arlanch (Doc, Blanca, I Medici) autore anche del saggio Vite da film (Franco Angeli), «l’evoluzione in chiave contemporanea del genere biopic non fa che riflettere questo gusto del mettersi in scena».

A spingere però reti e produttori verso questi prodotti è anche la loro duttilità pratica. Con le biografie l’iter decisionale di approvazione dell’idea è infatti molto più veloce: basta pronunciare il nome del protagonista e la committenza ha già chiaro il potenziale della storia proposta da autori e produttori. E questo vale ancor di più quando ci si rivolge al pubblico.

«Più il personaggio è famoso, più è riconoscibile e dunque maggiore sarà la forza pubblicitaria intrinseca al progetto», concorda Corti, «l’esempio principe, anche se probabilmente il titolo sposerà un taglio reality, è la serie di Amazon su Chiara Ferragni e Fedez: loro sono dei brand. Inoltre è molto alta anche la riproducibilità dei biopic: uno stesso soggetto può diventare una docu, un film tv o una fiction, e si può decidere di realizzare più formati contemporaneamente. Per esempio non è inusuale che l’uscita di un film sia preceduta da una docu: i due lanci si rinforzano reciprocamente».

I rischi del mestiere

Infine, è innegabile che le biografie semplifichino il lavoro dello sceneggiatore che si ritrova con l’arco narrativo dei personaggi già definito. Tuttavia sarebbe sbagliato liquidare questa “invasione” come una mera scorciatoia creativa. «Le biografie sono un genere spietato», assicura Arlanch, «una commedia romantica, anche se mediocre, scorre; un action, anche se non è perfetto, intrattiene il pubblico con le sue immagini spettacolari mentre le biografie franano rapidamente se sono realizzate male».

Il rischio peraltro è dietro l’angolo come dimostrato dal tiepido riscontro di film, anche ad alto budget, come Respect (sulla vita di Aretha Franklin, ndr).

Il primo scoglio è proprio l’adattamento. «Il documentario classico per certi versi è più agile: tutto sta nel selezionare le fonti corrette. Quando invece si entra nel terreno delle docufiction, dei film o delle serie tv, allora il discorso cambia», spiega Corti, «bisogna per forza comprimere il racconto e dunque tradirlo, sacrificando delle parti ed è un’operazione tutt’altro che agile. Inoltre la contemporaneità della storia non mette al riparo le fiction dall’annoso rischio di scadere nell’agiografia».

Comunicare un messaggio

La faccenda si complica ulteriormente se si decide di raccontare la storia di qualcuno non per restituirla con fedeltà, bensì come metafora esistenziale per comunicare un messaggio. Per esempio la serie inglese The crown non è altro che una gigantesca saga sul potere e sulla tradizione, così come SanPa nasce per svelare il dramma della droga. «Qui la bravura degli autori fa la differenza», conferma Arlanch, «tutto sta nel come racconti la metafora, sia essa storica o contemporanea, e se hai scelto il giusto soggetto per veicolare il messaggio desiderato».

Come se non bastasse c’è tutto il problema delle autorizzazioni, con annessa trafila burocratica. Sia che il diretto interessato sia ancora in vita o sia deceduto, l’iter delle approvazioni è sempre lungo e tortuoso e le polemiche possono scoppiare anche dopo la messa in onda o l’uscita nelle sale del biopic. «Personalmente ho sempre pensato che il miglior biopic della storia fosse Lawrence d’Arabia che, come è noto, è tratto dall’autobiografia I sette pilastri della saggezza», continua Arlanch, «purtroppo la pellicola non si è potuta chiamare come il libro perché all’epoca il fratello di Lawrence non apprezzò il film negando l’autorizzazione a usare il titolo. Ecco, capite bene che se nemmeno una pellicola meravigliosa come questa, che ha vinto sette Oscar, è riuscita a convincere i parenti, la possibilità di trovare la strada spianata è davvero bassa».

Infine, c’è il tema della credibilità. Per anni alcune grandi biografie non sono state adattate in film e serie tv perché non c’era un volto che potesse incarnare il protagonista. Ad esempio non è facile trovare un interprete attendibile per Totò: il pubblico può (forse) accettare le licenze poetiche ma non transige sul rigore visivo.

«Non a caso sta prendendo piede l’abitudine di utilizzare attori diversi per rappresentare, negli anni, il medesimo protagonista», osserva Corti. Il caso più eclatante è The crown, ma anche nella serie Sogno benedetto, in arrivo a fine ottobre su Amazon prime video, Maradona, a seconda del periodo storico, avrà il volto degli attori Nazareno Casero, Juan Palomino e Nicolas Goldschmidt. Capite bene dunque che la posta in gioco si alza, e di parecchio, quando il diretto interessato è ancora in vita e il raffronto è immediato: ne sa qualcosa il figlio di Sergio Castellitto che ha diviso i fan con la sua interpretazione di Totti in Speravo de morì prima.

«Nelle scelte di casting c’è chi punta sulla mimesi, e chi preferisce invece favorire il talento», spiega Arlanch, «e poi ci sono gli inglesi che riescono a fare entrambe le cose: loro sono decisamente i più bravi nelle biografie, anche perché riescono a unire una grande capacità divulgativa a una solida costruzione drammaturgica».

I biopic non sono dunque una scorciatoia sempre così agile. Però, di certo, funzionano e a favorirli è anche il crescente realismo immanentista del nostro immaginario: in fondo persino l’animazione sta abdicando ai suoi mondi colorati e favolosi, preferendo le ricostruzioni tecnologiche fedeli alla realtà (l’ultimo Re leone docet). Quasi che la fantasia interessasse meno.

«Le acquisizioni delle property e la spinta verso il biopic sono spesso foriere di capolavori però sì, c’è un oggettivo rischio di raccontare sempre meno storie totalmente originali, a discapito della fantasia», ammette Corti. Ed è un peccato perché fantasticare significa concedersi di guardare oltre la dimensione del qui e ora. Vuol dire alzare lo sguardo, giocare con l’impossibile, lasciarsi sorprendere da una storia di cui, a priori, non possiamo prevedere nulla.

 

© Riproduzione riservata