Il prezzo per aver curato la mostra L’altra metà dell’avanguardia 1910-1940 nel 1980, Lea Vergine ha rischiato di pagarlo, e forse lo ha pagato, anche in termini professionali.

A partire da quel momento, in più di un’intervista, ha sentito la necessità di ribadire di non essere “il critico delle donne”. Perché, dopo aver scoperto le donne ed essere stata al loro fianco, fare un’affermazione di questo tipo? Perché questa precisazione che potrebbe suonare come un rinnegamento?

Perché il rischio, dopo aver liberato le artiste, era quello di finire lei stessa in gabbia, perché il venir rinchiusa in un ruolo del genere l’avrebbe relegata a una specificità così costringente da non permetterle più di occuparsi d’arte nella sua interezza e complessità. Essere dalla parte delle artiste non poteva voler dire occuparsi solo di loro e neppure caricare l’arte del peso della rivendicazione politica e sociale a tutti i costi.

Per quanto lei fosse evidentemente vicina a talune istanze del femminismo – ha continuato a frequentare la Libreria delle donne anche negli anni successivi alla sua collaborazione per la cartella – e ne condividesse molte convinzioni, il suo primo interesse restava l’arte, nei cui confronti voleva mantenere la propria autonomia critica. Con questa affermazione, dunque, non ripudia le artiste, protegge la sua professionalità.

Arte androgina

Ovviamente, per quanto possa sembrare banale ricordarlo, tutti i critici che prima e dopo di lei si sono occupati pressoché esclusivamente di artisti uomini e hanno curato mostre per lo più in totale assenza di artiste, non correvano alcun rischio d’identificazione specifica rispetto a un unico genere, nessuno si è mai sognato di definirli i critici degli uomini e loro non hanno mai dovuto difendersi da classificazioni di questo tipo.

Che l’arte sia androgina, cioè che non abbia sesso, Lea lo ripete in continuazione da quella mostra in poi ed è perché non ci sono continenti dell’arte contemporanea dentro ai quali lei voglia precludersi di viaggiare. Eppure c’è un equivoco anche su questo: dire che l’arte è androgina non significa che non si debba tener conto di chi la produce, significa che un’opera ha o non ha una sua intrinseca forza al di là del sesso della propria autrice o del proprio autore. A Lea importa dell’arte, tutta, anche quella che detesta, perché quello è ciò di cui non può smettere di occuparsi.

Troppo spesso però in quel decennio, come Lea ripete, l’arte è stata sacrificata in nome del femminismo, già sul finire degli anni settanta, nel 1978, quando cura per Radio Rai la trasmissione L’arte in questione, in una puntata su creatività femminile e lavoro delle artiste sostiene: «Sembra chiaro che lo spazio artistico degli anni a venire sarà occupato massicciamente da quella che si suole definire l’atra metà del cielo, ossia dalle donne e dalla nuova elaborazione che esse stanno compiendo della loro cultura e della cultura in generale. Va però rilevato che la politica culturale femminista si va facendo cosa sempre più aspra, le istanze rivendicative in nome di un femminismo per arrivare al quale molte militanti di buona volontà dimostrano di dover affrontare ancora il tema dell’emancipazione non sono da dimenticare. Difatti dalla confusione dilagante, e non sempre innocente, che si fa tra rivendicazioni di categoria e movimento di liberazione della donna, vengono fuori mostre d’arte, collettive, serate, dibattiti messi insieme un po’ a mo’ di vispe terese, cioè frutto dello spontaneismo, di rozzezze di metodo, di disinformazione intorno alla malintesa mistica della cosiddetta creatività femminile».

Prendere posizione

Per Lea, dunque, è importante essere “un critico” a tutti gli effetti e, pur essendo una donna, continua a usare la declinazione maschile per definire il proprio lavoro. All’epoca le riflessioni sui sostantivi delle professioni femminili erano ancora di là da venire, si tratta infatti di una discussione che nel dibattito pubblico italiano si apre qualche anno più tardi, sul finire degli anni Ottanta. Essere e definirsi un critico, in quel momento, non è, quindi, una questione di potere ma di legittimità, di autorevolezza professionale.

I critici potenti negli anni Ottanta sono altri, portano avanti ricerche che non la interessano e che, anzi, a tratti la indignano profondamente. In questo decennio la maggior parte dei critici (uomini), quelli che ottengono nomine, consulenze e incarichi, ha un’affiliazione politica dichiarata o comunque palese.

Lei invece resta lontana sia dai partiti – fin dagli inizi ha una posizione critica anche nei confronti del Pci, colpevole di avere un atteggiamento miope nei confronti dei linguaggi artistici contemporanei –, sia dalle tendenze di mercato, continuando a occuparsi di ciò che le importa piuttosto che di ciò che è conveniente.

Infatti mentre intorno a lei vengono messi all’angolo i temi e le pratiche che l’avevano interessata fino a quel momento, in un clima socio-politico del tutto diverso, nella Milano da bere in cui Lea vive, continuiamo a trovare una donna che non ha bisogno di uniformarsi ma che anzi persevera nel prendere posizione in modo inequivocabile a favore di ciò in cui crede, anche quando sembra essere fuori moda.

Oltre a dichiarare il proprio disappunto, attaccando mostre e revivalismi che riportavano alla ribalta certe epoche novecentesche in odore di ventennio, verso le quali si mostra intransigente, lei va sempre dritta per la sua strada e segue le espressioni artistiche a cui si sente vicina, non quelle che interessano al mercato, che invece attacca duramente.


Pubblichiamo un estratto di Non il potere ma la forza. Lea Vergine (Electa, 2025) di Angela Maderna

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