«Vorrei continuare a parlare di cose eleganti, dei miei slideshow, ma negli ultimi due anni ho vissuto dove avete appena visto», Nan Goldin chiude così l’anteprima stampa della sua mostra al Pirelli HangarBicocca, visitabile fino al 15 febbraio. Lo fa dopo aver mostrato un montaggio di video, ripresi da social media e tv, sul genocidio a Gaza e dopo aver ricordato ai giornalisti in sala che il numero dei colleghi uccisi dall’esercito israeliano, a settembre 2025, era arrivato a 278 persone.

Questo film è proiettato in quella che nel display architettonico si è configurata come una piazza al centro di un villaggio di padiglioni – in ognuno dei quali c’è una delle sue opere. Come ha dichiarato lei stessa questo lavoro si trova lì per ricordarci «ciò che non dovremmo dimenticare. Non dovremmo distogliere lo sguardo dal dolore di Gaza. Non è il momento della negazione e dell’amnesia».

Davanti a quelle immagini, le stesse che scorrono quotidianamente sugli schermi dei nostri cellulari, sia che siamo dentro a una mostra o altrove, in tante ci chiediamo quale sia il senso di continuare a occuparci d’arte e se e cosa l’arte possa fare. Per quanto circoscritto e tendenzialmente ininfluente sulla società di massa, il mondo dell’arte costituisce un sistema di potere e come tale non è neutrale né innocente. Mi si perdonerà se sottraggo righe alla recensione della personale di Goldin, ma ci sono degli esempi concreti che vale la pena di rendere più noti.

In Italia ci sono state diverse chiamate al boicottaggio di esposizioni e istituzioni ad opera del gruppo di artiste e attiviste di Galassia Antisionista, ultima in ordine di arrivo quella contro al Maxxi di Roma, dovuta anche ai rapporti di partnership con aziende come Leonardo S.p.A. ed Eni. A livello internazionale c’è stata invece la costituzione, nel febbraio del 2024, di Art Not Genocide Alliance – ANGA, che con una lettera firmata da oltre 24mila persone, tra cui la stessa Goldin, continua a chiedere alla Biennale di Venezia di non concedere spazi di visibilità a Israele. Una richiesta al momento rimasta senza risposta.

Arte e attivismo 

È esattamente così che si può agire, ce lo ha insegnato la stessa Nan Goldin, artista e attivista. Se c’è una cosa che lei stessa ha sempre messo sotto gli occhi di tutti, fin dagli anni ottanta, è che la verità va guardata dritta in faccia e va dichiarata, anche quando è scomoda e dolorosa, anche quando straborda, uscendo fuori dai canoni dell’accettabilità di una società benpensante e nonostante possa dare molto fastidio al potere. Lo racconta bene Sofia Mattioli in La verità quando accade. Nan Goldin, uscito a novembre per i tipi di Electa nella collana Oilà.

È storia recente la battaglia di Goldin contro i farmaci a base di ossicodone, di cui lei stessa è caduta vittima di dipendenza. Goldin, insieme al gruppo P.A.I.N., ha messo in luce le responsabilità della famiglia dei Sackler, proprietari della casa farmaceutica che li distribuiva, e ha lottato dentro al sistema dell’arte perché non cedesse alla loro filantropia. Una storia testimoniata nel film di Laura Poitras, All the Beauty and the Bloodshed del 2022.

Probabilmente non è un caso il fatto che quando penso all’opera di Goldin mi torni alla mente il ben noto slogan femminista «il personale è politico». Infatti, sebbene il motore delle sue opere sia quasi sempre il suo stesso vissuto, tutta la sua produzione ha un portato d’impegno sociale tale da trascendere l’esperienza individuale.

Un album di famiglia

Accadeva già a partire dal suo primo e più noto lavoro The Ballad of Sexual Dependency (1981-2022) che parla di vite al limite della dipendenza, della violenza e della vulnerabilità sessuale. Uno slideshow che raccoglie circa 700 ritratti, accompagnati da colonne sonore, di quella che può essere definita la famiglia non biologica dell’artista.

Una sorta di grande album di famiglia per nulla convenzionale, che dal 1981 è stato presentato in forme e montaggi ogni volta differenti, in cui sono mostrati anche i momenti più intimi di amici, amanti e dell’artista stessa. Un carosello d’immagini attorno a cui, nelle prime proiezioni, si riunivano proprio i conoscenti di Goldin; un po’ come accadeva per le diapositive delle ricorrenze familiari, il pubblico era composto dalle stesse persone che si trovavano nelle foto e che purtroppo sono oggi in gran parte scomparse, molte di loro a causa dell’Aids.

I ritrovi attorno a queste immagini non avvenivano però tra le poltrone dei salotti borghesi e nemmeno nei luoghi deputati all’arte, bensì in club, cinema underground e posti che la comunità dell’artista frequentava. Una sorta di diario personale, come lo ha definito lei stessa, nel quale è evidente che lo sguardo di colei che sta dietro all’obiettivo non è distaccato, non è giudicante, né tantomeno semplicemente documentale, ma affettuosamente coinvolto e partecipe.

Soggetti invisibili 

Allo stesso modo un’opera come The Other Side (1992-2021), nata come un omaggio ad amiche e amici transgender con cui Goldin viveva all’epoca, rappresenta un varco nella barriera dell’invisibilizzazione di queste soggettività.

Il punto di vista di Goldin ha un risvolto politico anche quando fotografa i bambini e le bambine, figli e figlie delle sue amiche (Fire Leap del 2010-2022) e riflette sul fatto che crescendo gli esseri umani perdono la loro innata conoscenza del mondo. Con You Never Did Anything Wrong (2024) getta una diversa prospettiva anche sul modo in cui guardiamo gli animali, spesso amorevolmente considerati compagni, ma paradossalmente intrappolati nella nostra visione antropocentrica, domestica e addomesticata.

Infine il toccante lavoro Sisters, Saints, Sibyls (2004-22), dedicato alla sorella maggiore Barbara Holly Goldin, suicidatasi quando l’artista aveva solo 11 anni, pur partendo da una tormentata esperienza personale possiede una forza universale.

Si tratta di un’opera a tre canali che, facendo correre in parallelo la storia di santa Barbara e quella della sorella dell’artista, ci dice quanto il tentativo della società borghese di contenere e nascondere le urgenze di una giovane donna possa essere costrittivo e insensato, al punto da portare a gesti estremi come quello di togliersi la vita. Un’opera questa (nei cui titoli di coda scorre la dicitura «In solidarity with the people of Palestine») che chiude una mostra intensissima e nella quale scopriamo una Nan Goldin che non si può definire semplicemente fotografa.

Goldin ha sempre voluto diventare una filmmaker e infatti presenta i suoi scatti in complessi slideshow che si possono definire film costruiti su fotogrammi, al loro interno sono inclusi anche musica, parole e frammenti video.

This Will Not End Well è una mostra che raccoglie retrospettivamente la ricerca che l’artista ha condotto in oltre quarant’anni di carriera e lo fa grazie alla virtuosa collaborazione tra quattro istituzioni internazionali: il Moderna Museet di Stoccolma, Pirelli HangarBicocca di Milano, lo Stedelijk Museum di Amsterdam e la Neue Nationalgalerie di Berlino.

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