Sono sempre stata affascinata dal suono delle parole dell'idraulica, correnti a pelo libero, salto di Bidone, colpo d'ariete, sfioratore, ancora di più da quelle che avevano riflessi polisemantici, turbolenza in testa. Se dovessi dire con una parola cosa è per me la scrittura, sceglierei la parola stramazzo, che descrive quel fenomeno per cui l’acqua scivola via da una superficie ma non si perde, assume una forma sinuosa e compatta. Una parola a cui penso spesso per quell’equilibrio che cerco sempre fra l’esondare senza limiti e mantenere una forma elegante, comunque descrivibile matematicamente.

Quando ho finito la prima stesura di Nina sull'argine, ho realizzato quanto il materiale narrativo che avevo a disposizione, derivante dai miei studi e dalla mia esperienza, fosse fertile da un punto di vista metaforico: la costruzione di un argine, la violenza dell’acqua, l’assestamento delle opere costruite.

Non dico niente di nuovo. Matthys Levy e Mario Salvadori, nel loro Perché gli edifici cadono, raccontano in maniera brillante i parallelismi fra la lingua e strutture.

«La tutela di una lingua allo scopo di prevenire il totale fallimento della comunicazione, anche quando si verifica un fallimento parziale, e perfettamente analoga alla quantità di ridondanza che un progettista mette in una struttura per evitarne il crollo totale nel caso di cedimenti locali e varia a seconda del tipo di struttura. Essenzialmente la ridondanza strutturale permette ai carichi che siano sopportati in più di una maniera -cioè attraverso più di un percorso all'interno della struttura - e deve essere considerata una caratteristica necessaria in ogni grande struttura o in ogni struttura il cui crollo può causare danni gravi o la perdita di vite umane.»

Per tutte queste ragioni desideravo avere il controllo della materia, a partire dal linguaggio che dovevo costruire, perché non guidasse il lettore per vie semplici, lungo metafore a buon mercato, ma che lo portasse a guardare agli elementi dell’ingegneria idraulica in maniera pura, gliene facesse apprezzare il suono e il potere evocativo, e che le eventuali somme, o metafore che dir si voglia, le potesse trarre da solo, una volta finita la lettura.

Finita la prima stesura, quindi, avevo chiaro che il mio compito sarebbe stato quello di pulire, per lucidare quelle espressioni che mi giravano in testa da anni, e che usavo per lavorare, mostrandole a tutti. E per dare corpo alle mie riflessioni, mi sono messa a studiare. Ho studiato in italiano. Non perché non ci siano grandi romanzi che parlino di cantiere in lingue diverse, basti pensare a Nascita di un ponte di Maylis de Kerangal (Feltrinelli, trad. Piovanello Baiocchi), o a Cristo fra i muratori, di Pietro Di Donato (Readerforblind, trad. Manuppelli). Ammiro la capacità di raccontare l'epica di una costruzione in maniera fluida e sempre precisa di de Kerangal, o la precisione dolorosa e autobiografica con cui Di Donato racconta lo sfruttamento, le morti bianche.

Io però cercavo la funzione musicale della nostra lingua, una serie di autori a cui puntellare il mio lavoro. Il primo puntello me lo ha fornito Paolo Volponi, con Memoriale e la storia di un uomo che vive l'angoscia del lavoro e la trasfonde nel paesaggio, un personaggio a disagio, rimuginante, quale sentivo la mia protagonista, Caterina.

«Ad un certo punto m’accorsi che il pezzo cambiando sotto le frese, un attimo prima d’essere finito, assumeva il colore opaco del lago di Candia. Questa fu una grossa rivelazione tanto che da allora per molto tempo, anche se non per tutta la giornata, svolgevo il mio lavoro per arrivare ogni volta al punto in cui compariva il colore del lago; la frazione di lavoro successiva, necessaria per finire il pezzo, era diventata per me come l'ultimo tratto di una strada, diversa da quella vera, tra il lago e casa mia».

Memoriale mi è diventato amico, e al suo lago ho dedicato qualche passo, mutuandolo sul mio tipo di lavoro. Il mio lago quindi «si annuncia in un bagliore, come smerigliato da una levigatrice».

Ho cercato in Italo Calvino, con La speculazione edilizia. Ho trovato la costruzione come un fantasma. «Avvolta nel castello delle impalcature, come un mucchio confuso d'assi, corde, secchi, setacci, mattoni, impasti di sabbia e calce, la casa cresceva nell'autunno. Già sul giardino si abbatteva la sua ala d'ombra: il cielo alle finestre della villa era murato.» Ho trovato, anche, delle descrizioni accurate e dolenti dei rapporti in cantiere, con la ribellione di Angelin che mi commuove ogni volta che rileggo.

Ma io cercavo lingua, mi serviva il linguaggio. Così ho continuato a scavare all'indietro, fino a quando non mi sono imbattuta in Paolo Barbaro, ingegnere e scrittore. La lingua del suo primo libro, Giornale dei lavori, la storia della costruzione di una diga e una centrale in montagna, è scarna, aspra, con un dettato quasi poetico, il cui suono andava nella direzione che cercavo.

«Finalmente, direttori imprese società, volanti avviamenti frizioni, e quei lunghi odori che lasciano le macchine troppo grosse coll’umido in montagna, tutti ripartirono; e allora, col pacco dei disegni, potei andarmene a scoprire tra le montagne bianche di neve il posto che mi importava.»

Anche Paolo Volponi era un poeta, ecco un primo filo. Paolo Barbaro era, anche, un ingegnere come me, ecco un secondo filo da tirare. Ma soprattutto, era un doppio: il suo vero nome infatti era Ennio Gallo, e il suo essere doppio mi porta all'ultimo passo della mia ricerca, ed è l'opera di Primo Levi. Anche lui doppio, chimico e scrittore, diviso in un'ulteriore parte, quella del testimone, quella che lui in una ellissi da manuale definisce «in condizioni disagiate» (in Tornare a scuola, da L'altrui mestiere).

Doppi, quindi. Anche io sempre doppia, scrittrice e ingegnera, anche Caterina detta Nina, protagonista del romanzo, sempre doppia. Erano loro quindi a cui mi dovevo poggiare. Su La chiave a stella, un lavoro che è solo da leggere e rileggere, un appunto solamente: Libertino Faussone, montatore di gru, il personaggio a cui Primo Levi ha dato corpo e lingua, ha un metaforizzare distante da quello di cui avevo bisogno. Caterina è una protagonista con una formazione più alta, dovevo trovare le mie metafore. Da La chiave a stella potevo però imparare una certa epica del lavoro che anche io volevo raccontare, insieme alla capacità straordinaria di descrivere i fenomeni naturali e in cantiere (si veda, su tutti, Off-shore e Il ponte). A lui, che dedica La chiave a stella a J. Conrad con il suo exergo tratto da Tifone, ho pensato anche citando La stiva e l'abisso di Michele Mari, che de la Linea d'ombra di Conrad è debitore.

Per la lingua del paesaggio, mi hanno aiutato alcuni "narratori della pianura", Gianni Celati, Ermanno Cavazzoni, Marco Belpoliti, che mi hanno permesso di regolare la giusta temperatura per la nebbia che desideravo, con un particolare riferimento a Guido Ceronetti, e il suo Viaggio in Italia, acido, antiretorico.

«Ritorno al mattino dopo a vedere il Po. C'è un po' di rose sparse dall’aurora, ma l'odore dell'aria è miasmatico, l'acqua è di cloaca chimica. La riva è barbata di rifiuti. Qualcosa da leggere tra la ruggine: FIDOIL EXPORT LUBRIFICANTE: KIM TEME IL GELO.»

A lui pensavo quando ho scritto «Torna fuori a godersi il freddo carico di smog. Le giornate invernali sono fatte d’acciaio. Hanno un sapore metallico e i bordi affilati», come ultimo puntello, come faro a rammentarmi che il paesaggio non si idealizza. Mai.

Eccomi quindi alla fine di questo mio viaggio, i puntelli sono stati sistemati, la mia armatura di rinforzo è finalmente completata, e con lei ho potuto scrivere Nina sull'argine, affinando il mio modo, sporgendomi in avanti senza più paura di cadere. Di quel tanto che basta per raccontare con le mie parole, i miei suoni, le mie metafore, l’ingegneria che conoscevo. Perché se, come diceva Primo Levi, non c’era nessun romanzo su un chimico, non c’era nessun romanzo su un ingegnere idraulico. Soprattutto, non c’era nessun romanzo sull’idraulica fluviale, per me la cosa più importante.

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