Ernest Hemingway scrisse e spedì 6mila lettere. Sembrerebbe molto, ma è poco più che niente. Basti dire che Steve Ditko, uno dei due creatori di Spider-Man, arrivò a intrattenere con una sola persona uno scambio di 1.500 lettere, e a causa della corrispondenza accumulata la porta dello studio dell’appartamento newyorkese in cui da tempo si era ritirato non si riusciva ad aprire.

Samuel Beckett, il cui carteggio vanta oltre 15mila missive, fu un altro grande gigante della scrittura epistolare del Novecento. Ora Adelphi pubblica il secondo volume della tetralogia prevista per raccogliere una buona sezione di quest’immenso materiale cartaceo. La Winnie delle pièce Giorni felici esclamava: «Che maledizione la mobilità». In effetti l’immobilità è la prima condizione per poter scrivere così tante lettere avendo a disposizione una sola vita.

Con l’ultima lettera del primo volume avevamo lasciato Beckett che malauguratamente stava organizzando una partita di biliardo proprio per il venerdì in cui Parigi sarebbe stata occupata dai tedeschi. Uno dei tanti banchi di prova di un’intelligenza artistica è la capacità di sostenere il contesto in cui le è toccato in sorte di doversi esprimere: Beckett e la moglie Suzanne lasciarono così la città due giorni prima della partita e dell’invasione nazista.

Sgraziato e intenso

Tolte le lettere che batteva sulle macchine da scrivere, tutte abitualmente con il nastro a brandelli, la maggior parte le scriveva a mano in una calligrafia sgraziata e indecifrabile. Quando André Gide nel 1908 recensì l’epistolario di Dostoevskij, nonostante adorasse il suo autore, scrisse che probabilmente il russo avrebbe meritato la medaglia come il peggior scrittore di lettere di tutti i tempi. Di Samuel Beckett si può dire che, tra i grandi scrittori, avesse la grafia meno leggibile di tutti. E l’impresa dei curatori si immagina avventurosa non solo per aver dovuto decriptare questa sua mano di gallina, ma anche per essere riusciti a localizzare, ottenere e trascrivere le lettere che lo scrittore irlandese scrisse ininterrottamente dal 1929 al 1989.

Le scriveva in inglese, in francese e una piccola parte in tedesco. A volte in fogli ripiegati in modo da ottenere quattro facciate, spesso con lapsus e refusi. Come un’avventura fu quando, alla ricerca di un certo Desmond Morris che da Toronto aveva scritto a Beckett nel 1956 alcune domande a proposito di Aspettando Godot, i curatori di quest’opera contattarono quarantacinque anni dopo tutti i Desmond Morris dell’elenco telefonico della città canadese. La ricerca andò a buon fine.

Pressoché in ciascuna di queste lettere, esiste un dettaglio che cattura l’occhio. Un particolare speciale per il tono emozionale, al di là dell’aneddotica, che fa crescere la partecipazione del lettore fino a trasportarlo oltre la busta e il francobollo e dentro la vita di Beckett. Come quando scrive: «Sarei stato un ottimo maggiordomo, no, troppe responsabilità, ma un domestico sopraffino sì, un domestico a capo della servitù – no, un domestico e basta». E sembra di sedere accanto a lui quella sera in cui confessa a un amico che farebbero al caso suo «quindici o vent’anni di silenzio o di solitudine, allietati dal lavoro nell’orto e dalle passeggiate sempre meno lunghe». O la volta che racconta di aver sorpreso un grande picchio verde e giallo abbarbicarsi al tronco di un albero e dice della sua «gioia assurda» mentre questo si affrettava a salire sui rami più alti. O ancora quell’occasione in cui, corrugando probabilmente persino più del solito la fronte, annotò per il suo destinatario postale: «Scrivere è impossibile, ma non impossibile a sufficienza».

È un uomo senza rancori, quello che appare dalle lettere di questo secondo volume, senza asprezze ora che la guerra è finita. Anche quando scrive che Murphy ha venduto sei copie, anche quando si scopre stanco e con il timore di «prendere un granchio», anche se in quegli anni lui e Suzanne hanno campato innanzitutto grazie ai lavori di sartoria della moglie: non se ne lagna mai. A un amico triste consiglierà di fare così: «Non si disperi, si appollai sulla sua disperazione e ce la canti». Sembra che Beckett già conoscesse ciò che qualche anno dopo avrebbe detto Nell in Finale di partita, nella battuta che per il suo autore sarebbe stata la più importante della pièce: «Non c’è niente di più comico dell’infelicità». E lui, anche nei suoi giorni più avvilenti e tristi, pare non volesse rischiare di fare la figura del comico.

Faccende editoriali

In questa «montagna di lettere», come lui la chiamava, convergono tutti i suoi amici, gli editori, gli altri artisti e gli scocciatori con i quali rimase tempestivo nel rispondere anche quando divenne famoso. Beckett sembrava non sapere nulla delle faccende editoriali, di contratti, ma sapeva quel che bisogna sapere dacché esiste l’editoria e cioè che gli editori vivono sempre in cattive acque, che se la passano male quando non malissimo, e che nelle loro stagioni più fortunate sono costantemente sull’orlo della bancarotta.

Beckett rifiutava di recensire certi libri così come rimandava al mittente con gentilezza la proposta di tradurne alcuni altri. Negava interviste garbatamente e non acconsentiva a farsi fotografare. In una lettera accetta una partita di tennis, purché chi gli ha lanciato il guanto di sfida gli presti una racchetta («Perderò il primo set, vincerò il secondo e morirò al terzo», profetizza); in una rimprovera Simone de Beauvoir per avergli pubblicato un racconto a metà («Mi è difficile mettermi nei suoi panni, poiché non so nulla di questioni redazionali. Ma ho letto i suoi libri e so che lei può mettersi nei miei», puntualizza); in un’altra lettera si arrabbia con il redattore di una rivista per non avergli spedito le bozze prima di andare in stampa e, in un’altra ancora, infuriato, domanda se possa portare in tribunale La Nouvelle Revue Française per aver omesso alcuni paragrafi di due suoi racconti.

La persona, tra tutte quelle che compaiono in questo carteggio, a cui Beckett è più riconoscente è l’editore francese Jérôme Lindon, sempre con il completo scuro, la camicia bianca e la bella cravatta, che aveva la segreteria delle Éditions de Minuit in rue Bernard-Palissy e che di fatto fu colui che consentì all’irlandese di conquistare il mondo e che nel 1968 andò a Stoccolma a ritirargli il Nobel. Lo scrittore francese Jean Echenoz che ne ha tratteggiato un magnifico profilo nel libro Il mio editore lo ricorda come un uomo «di morfologia asciutta, dal lungo viso austero ma sorridente, be’, non sempre tanto sorridente, dallo sguardo acuto, insomma è un uomo che mette parecchio in soggezione», e ne rievoca le telefonate di prima mattina e  i pranzi al Sybarite in cui beveva unicamente moltissima acqua. (Curiosamente i due, Echenoz e Beckett, si incontrarono: accadde dopo la breve cerimonia del premio Médicis vinto dal giovane romanziere. Si strinsero la mano, senza scambiarsi neanche una parola e forse proprio per questo qualche giorno dopo Beckett dirà a Lindon di avere pensato che Echenoz fosse un po’ scemo).

Sfogliando queste lettere si scopre inoltre del rammarico di Beckett quando, a causa di accordi precedenti, si trovò a dover rifiutare la proposta di una produzione che avrebbe portato in scena il suo Godot in un teatro di New York con Buster Keaton e Marlon Brando nei panni di Pozzo e Lucky; così come, soprattutto per noi lettori italiani, incuriosisce sapere che, mentre la leggeva in bozze, giudicò «un lavoro non brillante, ma abbastanza fedele» la traduzione dello stesso Godot di Carlo Fruttero, e una volta che fu pubblicata la definì accompagnata da una «assurda prefazione del traduttore».

«Senza tabacco né alcol la vita è impossibile», scrive Samuel Beckett in chiusura a una di queste migliaia di missive. Avesse anche dovuto rinunciare a tenere la corrispondenza la sua vita sarebbe stata ancora più impossibile.


Samuel Beckett è autore del libro Lettere 1941-1956, curato nell’edizione italiana da Franca Cavagnoli e tradotto da Leonardo Marcello Pignataro, edito da Adelphi. Il volume (II) è parte di una tetralogia in via di pubblicazione da Adelphi

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