Fermo, rubato, perso, morto: in questi due anni orribili, e pure meravigliosi (se la meraviglia è la sorpresa dell’imprevedibile), tutti, come Amleto visitato dal fantasma, abbiamo avuto la rivelazione del dissesto del tempo.

Avevamo l’abitudine – o il vizio assurdo – di credere che fosse una successione di istanti, una dimensione oggettiva che si poteva misurare e controllare - che esistessero un passato, un presente, un futuro: e si assomigliavano. La frattura è stata improvvisa e brutale, e la lacerazione non si è ricomposta. Forse non potrà farlo.

Il tempo può essere anche solo una durata, un intervallo fra due eventi, due termini (ma quali? dov’è il secondo? dove si chiude questa infinita parentesi? una digressione troppo lunga destruttura la sintassi, e vanifica ogni discorso).

Non si recupera, non si riavvolge, non esiste il rewind (del resto neppure la parola, legata al mondo analogico dei supporti materiali, esiste più, il mondo digitale non conosce  la linea, solo il punto). Fratturato, esploso, minacciato da svariate catastrofi: questo è adesso il tempo che ci è toccato.

È anche un tempo assordante, pieno di urla, furore, frustrazione e rabbia. Non si può rifiutarlo, poiché esso è. Il Novecento ci ha insegnato che il tempo è una dimensione interiore, un’esperienza legata alla coscienza che l’individuo ne ha. Ma l’aggettivo possessivo “nostro” che abbiamo scelto per il titolo di questa edizione del Festival indica che invece questo squasso ci riguarda tutti.

In letteratura non esiste il tempo universale, centrato per convenzione sul fuso del meridiano di Greenwich. Forse c’è stato: è finito con la decolonizzazione e la globalizzazione. La letteratura oggi più che un’unica galassia è un pulviscolo stellare. Ma non una cacofonia: in questa edizione – la ventiduesima di un’avventura collettiva che negli anni ci ha arricchito, intrattenuto, divertito, turbato - abbiamo cercato di comporre un coro.

Adesso regaliamoci il tempo di ascoltare. Lingue diverse, mondi antitetici, visioni opposte della letteratura. Scrittori amati da scrittori, come il genio rumeno Cartarescu, e amati dalle folle, come Markaris e Perez-Reverte. Scrittrici e scrittori vicini – italiani come Parrella, Scurati e Piperno, che insegue il massimo cacciatore del tempo, Proust – e lontani – come dal Messico Guadalupe Nettel e dal Kenya Khadijia Abdallah Bajaber.

Ascolteremo lo spagnolo di Cercas e il francese di Emmanuelle Pagano, lo scozzese di O’Hagan, l’inglese di Deborah Levy, l’americano di Kitamura, Leavitt e Whitehead. Biografi, documentaristi, romanziere che s’interrogano sull’amore come Galchen e sul crimine come Ben Pastor, viaggiatori e storici come Darlymple, ormai inglese d’India. Patricia Engel, colombiana che scrive americano.  

La letteratura non va mai fuori tempo massimo. Non conosce il tempo utile né il tempo debito né il tempo reale. Si prende a volte il tempo del pianto (il periodo riservato al lutto), spesso il tempo del ricordo (Maraini dedica il suo intervento a Pasolini) e sempre il tempo libero. Che però - ogni lettore lo sa - è l’unico tempo liberato.

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