Una giovane donna trascorre le ore che la separano dall’alba in un appartamento preso in affitto per una sola notte. Si siede di fronte a una porta murata e parla con il ragazzo che abita dall’altro lato della parete. Lui ha un’età, un percorso di studi, una famiglia, delle mezze storie, delle cose di cui lamentarsi e altre di cui essere tutto sommato soddisfatto, ha progetti poco strutturati e un gusto di gelato preferito (il limone), è biondo e belloccio in quel modo nitido che a lei interessa poco. Dunque possono essere amici.

Lei di lui conosce questo e molti altri dettagli. Sa perfino che, molti anni prima, lui è morto. Conosce anche il modo in cui è accaduto, ma non lo dice. Sa tutto questo perché lo ha inventato di sana pianta. Si è seduta davanti a una porta murata e ha deciso che dietro c’era un fantasma. Potremmo dire questo, magari concludere che sia mezza matta.

Oppure potremmo dire che ha intuito qualcosa di vero e che, attorno a questo debolissimo qualcosa, ha aggregato una serie di elementi verosimili per farne una piccola storia solida. Lo ha fatto per passare il tempo, per gioco, perché si sentiva molto sola, per non provare la paura che chiunque abbia letto anche solo due righe di Edgar Allan Poe avverte di fronte a una porta murata, specie di notte.

Poi c’è un ragazzo – che non è più esattamente un ragazzo, perché ha quasi quarant’anni e a quarant’anni, nello stato di natura, si sarebbe già pronti a lasciare che le ossa nutrano gli alberi –, c’è un ragazzo che si sveglia a causa di un frastuono metallico. È il giorno di San Martino e a Venezia i bambini sciamano per le calli percuotendo pentole e coperchi in segno di buon augurio.

Il ragazzo che non è più un ragazzo ha una coinquilina con il gusto per il macabro, che senza battere ciglio guarda i bambini dalla finestra, e si sente ispirata a raccontare una storia antica di macelleria, cannibalismo e toponomastica locale.

Questi sono, a grandi linee, i contenuti dei primi due racconti comparsi su Finzioni nella mia “rubrica dei morti”. Alcuni dei dettagli sopra enunciati, nella loro veste definitiva, neanche compaiono. Questo perché nel contesto specifico sto lavorando sulla forma breve, inizio accumulando elementi utili a orientarmi nell’universo in miniatura che va creandosi, poi li seleziono e procedo per sottrazione.

Quando mi è stato proposto di tenere una rubrica dedicata ai morti ho pensato che non potevo chiedere di meglio. Subito dopo ho pensato che non sapevo come farla e, seguendo una rodata tradizione, per alcuni minuti mi sono disperata. Esauriti quei minuti, ho iniziato ad appuntare micro-soggetti, trasformatisi in storie di defunti che sono stati vivi pur non essendo mai esistiti. Dare la parola ai morti non è una novità, è stato fatto molto prima, molto meglio, a livelli infinitamente più alti.

I miei morti volevo però che avessero una caratteristica precisa, volevo che fossero evocati da persone vive e pronte a mettersi in relazione con loro, parlandone o parlandogli. Che i morti poi rispondano non è necessario, perché non ci stiamo muovendo nel territorio del soprannaturale. Da un lato è possibile dunque definirle storie di personaggi che praticano la consapevolezza della mortalità attraverso la parola, il dialogo, il pensiero. Dall’altro, in questa raccolta in divenire, stanno emergendo vicende a volte ambigue, magari tristi, oppure violente.

Mi sono perciò chiesta: se è vero che da almeno quattro anni, da quando ho iniziato a scrivere di fine, l’ho fatto cercando un approccio di non-negazione, che gli anglosassoni chiamerebbero death positive, allora perché scrivere brevi storie di fini che fossero tristi, o violente? Come un’apparizione inquietante, ho visto stagliarsi davanti a me la professoressa di italiano delle scuole medie. La mia professoressa di italiano delle scuole medie era cattivissima. Era anche talmente brava che questa mia testa sbadata e poco assorbente ancora ricorda i contenuti del suo programma. Però sul serio, lo assicuro, era cattivissima.

A volte se ne saltava fuori con affermazioni del tutto incomprensibili per i nostri cervelli in formazione, che ad anni di distanza sono tornate a perseguitarmi come farebbe il poltergeist con la casa infestata (lo stupore, nell’appurare che nel frattempo avevo acquisito gli strumenti non solo per ricordare quelle frasi ma anche per comprenderle, è sempre stato grande). Tra queste, una delle mie preferite diceva che il matrimonio, in quanto contratto, dovrebbe prevedere una clausola di rescissione che permetta di cambiare partner ogni dieci anni senza troppe beghe burocratiche. L’altra invece diceva: «Ricordatevi che non moriamo tutti a ottant’anni, pacificamente nel sonno e nel nostro letto» (io lo avevo anticipato, che era cattivissima).

Con un solo passo indietro nel tempo, l’apparizione successiva alla professoressa cattivissima e bravissima, è stata la maestra elementare bravissima e niente affatto crudele (mi permetto di annotare qui a margine che, per quanto abbia in grande simpatia i caratteri complessi, è anche un pensiero consolante che non sempre una qualità debba escludere l’altra).

Questa maestra gentile, a un certo punto, doveva farci studiare I Promessi Sposi. Il punto non è questo, il punto è che era supremamente ossessionata dalla storia della piccola Cecilia. Cecilia, ho poi riflettuto negli anni, è un personaggio davvero molto vivo per essere una bambina morta di peste. La incontriamo già deceduta e tenuta tra le braccia della madre. Ha l’aura della protagonista pur essendo – di fatto e da subito – un corpo. È sorretta dalla madre, che vediamo avanzare tra le macerie di un mondo allo sfascio. La donna si dirige dai monatti porgendo loro le spoglie perfettamente curate e vestite di chiaro della bambina, li paga affinché non le venga torto un capello, fornisce loro indicazioni per tornare a prenderla, a sera fatta, quando il destino segnato dal morbo si sarà compiuto anche per lei.

A causa di un cortocircuito della memoria, questo frammento di Manzoni ha finito con l’accordarsi alla perfezione con la frase sentita pronunciare pochi anni dopo, dalla docente che amava esprimersi in modo forse troppo diretto, e che precocemente ci introduceva all’imprevedibilità della morte.

Oggi, mi viene da pensare che rendere verosimili i morti – e dunque la morte, il morire, la finitezza – può voler dire anche inventarli. E che inventarli non significa non rispettarli, ma rispettarli non significa essere sempre gentili con i propri personaggi (risparmiare loro sofferenze e paure, dedicarsi alle chiose edificanti o far «morire tutti a ottant’anni nel proprio letto»). Significa inserirli in un contesto narrativo abitabile (quindi credibile) e di cura delle parole. Un contesto dove ci sia spazio per affrontare la paura della fine, anche attraverso la finzione.

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