Nel 1947 il boom non era ancora cominciato, quindi prego Andrea Donaera (autore qualche giorno fa di un articolo sui boomer che si opporrebbero ai cambiamenti della lingua) di non considerarmi un padre impositivo ma semmai un nonnetto petulante.

Il tema è assai vecchio, la polemica contro il purismo linguistico dei pedanti c’era già al tempo di Basilio Puoti (1782-1847); ricordo Arbasino, a generazioni invertite, che rivendicava il diritto di scrivere «trend» contro la sfuriata di Nanni Moretti in Palombella rossa («ma come parlate?» ecc.) – che le lingue cambino continuamente non può essere negato da nessuno che sia appena ragionevole. Parole e giri di frase scompaiono, altri appaiono, tra quelli apparsi qualcuno decade e qualcuno dura – il linguaggio giovanile è una fucina di neologismi ed esotismi ma è anche quello che li brucia più rapidamente (chi avrebbe oggi il coraggio di dire o scrivere “matusa”?). Ci sono stati gli arabismi, gli ispanismi, i francesismi, ora è il turno degli anglicismi – non mi pare che la loro proliferazione si possa considerare una scelta di libertà, mi sembra piuttosto una questione di potere, cioè di subordinazione cultural-economico-politica. Alcune lingue si impoveriscono e altre trionfano; in molti paesi (Francia, Spagna, Olanda, Germania) si assumono iniziative anche legislative per difendere la lingua nazionale, senza suscitare particolari accuse di passatismo retrogrado.

Fate pure

Donaera, a nome suo e dei più giovani di lui, prega boomer e pre-boomer di lasciarli parlare «come cazzo gli pare». Si accomodino pure (a proposito, siamo sicuri che “cazzo” sia maschile? Laura Betti, per esempio, aveva l’abitudine di dire «la cazza»). Il loro è un vasto programma: non solo per via dei “maschili sovraestesi” in italiano (“cittadini” che vale anche per le cittadine, “l’uomo primitivo” che include le donne primitive), ma per la regola grammaticale che fa concordare al maschile una pluralità mista di nomi (“Agnese, Roberto e Teresa sono andati”). Per non parlare di “patria” che dovrebbe essere affiancato da “matria” (per “patrimonio” la vedo un po’ più dura, perché “matrimonio” è già impegnato in altro senso); e Dio, naturalmente, che dovrebbe essere anche Dia, o Dea. Si dovrebbero rifondare intere discipline, come la psicanalisi freudiana e lacaniana, e più che le discipline si dovrebbe proprio ristrutturare l’inconscio, dove il padre è spesso percepito come simbolo di autorità, e la madre di accoglienza. La madre Terra dovrebbe andare in parallelo a un Padre Terra; sono faccende lunghe.

Come Donaera accusa i boomer di restare legati alla «splendida lingua pirandelliana» (che poi tanto splendida non era, così inteccherita e talvolta burocratica, impacciata dai germanismi), così lui si muove un po’ a casaccio in una lingua mutante, tra termini tecnici e gerghi giovanili (“togo” per esempio è modenese da sempre, e genericamente settentrionale, col significato di “ganzo, fico”; per l’etimologia si oscilla tra l’origine latina, o ebraica, o addirittura da un ammiraglio giapponese; da dove Donaera abbia ricavato che invece significa “duro” e i paninari anni Ottanta l’avessero derivato da un’errata pronuncia di “tough” non è dato sapere). Per i plurali misti invece la soluzione ce l’ha, ed è lo schwa; proposta interessante, che rischia di aprire qualche altro problema. Se io scrivo “un italianə” e non ci metto l’apostrofo, chi legge penserà comunque a un maschile, e a un femminile se ce lo metto. È vero che ormai si tende a mettere gli apostrofi con criterio cinobalanico (come diceva Gadda), e questo è segno che probabilmente cadranno in disuso; ma se Donaera scrive “sociologə”, senza “h”, io penserò al maschile, e al femminile se scrive “sociologhə”; ho letto in vari luoghi espressioni come “dellə lavoratorə”, il che mi fa pensare che nella neolingua l’articolo per il maschile plurale sia diventato “li” invece che, come ora, “i” o “gli”; e che si sia abolito il termine “lavoratrici”. Se è così, bisognerà esplicitarlo in qualche norma.

Un minimo di regole

Questo mi sembra davvero il problema. È curioso che i sostenitori del parlare (e scrivere) “come cazzo vogliono” siano poi particolarmente rigidi nel condannare certe parole che non gli vanno giù (a partire da innocui falli d’ignoranza: perché non permettere, con un sorriso, alla signora sessantatreenne di scrivere “ha” senza l’“h”, invece di prenderla in giro?). L’esigenza di “pulire” il linguaggio come si coniuga col desiderio di “scrivere come ci pare”? La lingua è un fenomeno collettivo, ed entra in conflitto con l’esigenza (che capisco) di adeguarsi flessibile a ogni minima sfumatura di diversità personale. Lo confesso con vergogna, ma ogni volta che leggo (sui giornali o in un romanzo) l’aggettivo “obeso” mi sento ferire da una piccola punta di infelicità; che posso fare? me la tengo e basta. Non è escluso che altri si sentano a disagio leggendo “chi va con lo zoppo impara a zoppicare” o “non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire”; che fare? modificare il proverbio, “non c’è peggior audioleso eccetera”? Si torna, come spesso, alla scuola. Che tipo di insegnamento linguistico si dovrà impartire per conciliare la libertà assoluta con un minimo di regole?

Gli insegnanti più avvertiti già da tempo abituano i ragazzi anche molto piccoli a impratichirsi con esercizi di stile, che poi significa capire che non ogni parola si può usare in ogni occasione, che il linguaggio deve essere adeguato al contesto. È meglio non scrivere “cazzo” nel curriculum per essere assunto in uno studio notarile, ed è meglio non scrivere “crush” o “triggherare” in una lettera alla nonna. La letteratura è per eccellenza il luogo della libertà linguistica, ma è anche il luogo in cui l’attenzione al contesto, e alla cultura di ciascun personaggio, dovrebbe essere massima. Sarebbe divertente se qualcuno (giovane o vecchio che sia) facesse del conflitto linguistico generazionale un oggetto di racconto: non solo satirico, anche tragico.

Il complesso edipico in un ragazzo fluido che non accetta i ruoli, e il senso di morte di un padre (o di un nonno) che si sente mancare sotto i piedi i punti di riferimento di una vita: sarebbe una bella storia. Meglio, certo, che star lì a tirarci addosso la parola “ideologia” come se fosse uno straccio bagnato. Donaera contrappone la supposta ideologia dei boomer al proprio culto per la “identità”: identità è una parola ambigua se riferita alla lingua, perché i conservatori la interpreteranno come identità linguistica nazionale («una d’arme, di lingua, d’altare», diceva Manzoni auspicando il futuro Risorgimento). Per gli odierni sostenitori della fluidità, al contrario, significa identità di gruppo, anzi di gruppi sempre più spezzettati e specializzati, prevalentemente e meglio se discriminati.

Qui lo so che farò la figura del reazionario, ma non posso impedirmi di ricordare le 58 (o più) categorie di “identità di genere” riconosciute da Facebook, e mantengo anche per la lingua le stesse riserve: come in quel caso l’enfasi tassonomica mi pare funzionale a una rimozione del fondamentale (e potenzialmente rivoluzionario) conflitto uomo/donna, così in questo temo che i detentori del vero potere finiranno per formulare un pensiero del tipo “lasciamoli giocare, sovvertano pure la lingua, basta che non invertano la direzione dei soldi”. Intersezionalità, d’accordo, le oppressioni sommandosi si moltiplicano e chi ne afferra un capo afferra tutto il gomitolo; ma questo capo qui, quello della lingua che a forza di reclamare libertà rischia di trasformarsi in sciatteria, o addirittura in censura, mi pare particolarmente fragile. 

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