Sulle bacheche dei social tornano ad affiorare ciclicamente contenuti che richiamano tuttə alla difesa della lingua italiana: meme boomeristici con frasi in capslock del tipo «Si dice pausa caffè, non coffee-break!!1!»; sgangherate card dal sapore partitico/patriottico in cui la lingua italiana viene considerata alla stregua di un cibo autoctono da tutelare contro una qualche invasione straniera.

Il cavallo di battaglia, poi, è un breve estratto di un’intervista ad Andrea Camilleri: nel video, con un tono pacatamente severo e con piccole scintille di rabbia, si afferma che se andiamo avanti così la bellissima lingua italiana sparirà perché la stiamo sostituendo con troppe parole straniere.

Insomma, questo italiano che sembra da molti anni lì lì per sfarinarsi tra le nostre labbra è un problema che infiamma gli animi di moltissimə, prendendo anche derive inquietanti: su tutte la crociata – a volte esplicita, a volte no – contro le cosiddette “nuove generazioni”, cioè tuttə questə giovinastrə che sporcano la lingua dei Dante, dei Leopardi e dei D’Annunzio con anglismi, barbarismi e altre sozzerie delle quali potremmo tranquillamente fare a meno – perché «L’italiano a tutte le parole che servono!1!», ho letto su Facebook qualche giorno fa, sul profilo di una docente in pensione, classe 1958, in una relazione complicata con il verbo avere.

Lingua e ideologie

È il momento di smetterla di girarci attorno: la maggior parte delle persone che aderiscono a questa impresa di tutela della lingua italiana sono semplicemente bloccate nel Novecento – non necessariamente da un punto di vista anagrafico, sia chiaro. Incastrate in un periodo storico in cui alla parola “lingua” si accostava la parola “ideologia”. Noncuranti o non consapevoli del fatto che oggi, alla parola “lingua”, si accosta soltanto la parola “identità” (per fortuna).

Incapaci, quindi, di accorgersi che nel momento in cui si fanno crociate di questo tipo si sta aderendo a un’ideologia che, per comodità, chiameremo “della negazione”: la negazione che la società possa mutare, la negazione che oltre alla loro generazione la storia possa proseguire – e dunque, anche, la negazione in toto di ogni alterità umana che non corrisponda a quella precisa visione del mondo, preziosa dal punto di vista socioculturale, ma fisiologicamente fuori tempo.

Perché, certo, attorno ai meme si può ridere, e leggendo certi status su Twitter si può provare un passeggero imbarazzo vicario (che è la definizione di Treccani della tanto detestata parola “cringe”): ma questa pretesa della lingua italiana epurata finisce per sfociare in prese di posizione politiche imperative, che negano anche il percorso identitario che milioni di persone provano a fare all’interno di un paese dominato (in ogni specola del potere, dalle piccole aziende a palazzo Chigi) da persone anagraficamente e/o mentalmente parecchio lontane da chi oggi ha un’età inferiore ai quarant’anni.

Infervorarsi contro «questi giovani!1!» che nei discorsi amorosi dicono “crush” al posto di “cotta”, o “top” al posto di “fico”, non genera soltanto uno stanco dibattito sulla preziosità della lingua illibata (che, spoiler alert: non è mai esistita). Questo posizionamento collettivo esonda nel dibattito pubblico. E qui nega la costruzione pacifica di un lessico multiforme che ha come obiettivo non quello di dire le cose “strane”, ma quello di assecondare ciò che non è ideologia, ma la realtà delle cose: la società muta, e con lei la lingua viva.

Lotta generazionale

È urgente per molti creare una separazione tra un prima e un dopo, tra un mondo che non c’è più e l’epoca inedita di chi partecipa alla vita da una manciata di anni. È urgente: soprattutto adesso che di “allarme invasioni” e di “ruoli tradizionali” ne abbiamo piene le bacheche.

La lingua oggi la si vuole inclusiva di ogni forma di umanità – di ogni generazione, genere, cultura. E l’italiano, così com’è, è una lingua spesso insufficiente – con i suoi “maschili sovraestesi” ecc.  

Non nascondiamoci: chi combatte l’inclusione di espressioni nuove nella lingua italiana è, quasi sempre, anche in prima linea contro le ipotesi di tantissimə linguistə e sociologə che provano a rendere l’italiano un idioma che parla di – e a – chiunque. I rauchi urli di orrore contro lo schwa sono spesso estesi anche a parole come “triggherare”. Il presidio di una lingua immacolata assume facilmente la fisionomia di una barricata mentale: «cosa vogliono questi gender fluid?», «cosa vogliono questi non-binary?», «che è ’sta roba? Ma dove andremo a finire?».  

Non è difficile, così, intuire che è in atto una lotta feroce e dall’esito incerto. Spesso generazionale. Una lotta che è in realtà riassunta in due narrazioni contrapposte. “Loro” hanno avuto il Sessantotto e il Settantasette (che «voi giovani non avete le palle di scendere in piazza, a differenza nostra»). “Noi” abbiamo la divulgazione sociolinguistica mindblowing di Vera Gheno, gli articoli sacrificali e spartiacque di Michela Murgia, le inesauste attività social di figure come Jennifer Guerra, le novità fino a poco tempo fa impensabili come l’avamposto dedicato alla Generazione Z su Treccani a cura di Beatrice Cristalli. Prima c’era la lotta (?) per strada, oggi ci sono persone che provano a richiamare alla coscienza collettiva le possibilità dell’ampliamento del linguaggio, in virtù di una società dove chiunque possa avere, finalmente, un’identità.

Potremmo evitare di dire “pro” al posto di “esperto”? O “no cap” al posto di “giuro che è così”? Certo che potremmo. Come i paninari degli anni Ottanta avrebbero potuto evitare di dire “togo” al posto di “duro” (proveniente, tra l’altro, da un bizzarro calco del doppiaggio cinematografico dell’epoca, dall’inglese “tough”). Potremmo preservare la lingua italiana da ogni intromissione, magari tornando a scrivere romanzi nella splendida lingua pirandelliana, ma dovremmo farlo soltanto a patto di fregarcene del costante moto della società che ci circonda. Che, ci piaccia o no, è molto più forte di ogni nostra posizione ideologica.

C’è un qualcosa all’orizzonte: assecondare i richiami all’ordine linguistico sarà, col tempo, impossibile. Per fortuna. Troppe dinamiche socio-identitarie (a loro modo antropologiche) sono in atto in modo inedito: la lingua di Millennial e Gen-Z è già il sintomo di uno strappo irreparabile, dove quasi non esistono più punti di incontro con la tanto agognata purezza della lingua (della società?).

Odio tangibile

Intanto però, d’altro canto, l’odio verso le mutazioni linguistiche è vero e tangibile. E, a suo modo, comprensibile: questo modo di manipolare la lingua avviene quasi del tutto in spazi digitali, è qualcosa che sfugge al comando, al potere, alla tradizione – e l’Italia, attualmente, è dominata in larga parte da persone che osservano con orrore la possibilità di dover lasciare spazio a «quelli che sono nati col telefonino in mano!!1!»; da chi sente l’urgenza di dire che Khaby Lame, a oggi tra i più noti tiktoker al mondo, non sia italiano; da chi scrive – e legge –  articoli sul non-binarismo di Demi Lovato, prendendo in giro il suo «they». Cosa c’entra? C’entra.

Attualmente ci sono generazioni intere che subiscono il tentativo di essere zittite, con spiegazioni sul come si dovrebbe parlare, su cosa si dovrebbe dire – con, sottinteso, il concetto perenne del «ora vi spieghiamo noi come si fa» (e, a tal proposito, è giusto segnalare la spassosissima, ma crudelmente realistica, web-serie Diventa un Boomer, prodotta su YouTube da Bot, con protagonisti i comici Edoardo Ferrario e Luca Ravenna: una sorta di disturbante tutorial per retrocedere nel mood del secolo scorso).

Infine, c’è un concetto che sento davvero urgente e che vorrei esprimere (ovviamente con buona pace del mai troppo compianto maestro Camilleri): abbiate pazienza, ma fateci parlare come cazzo ci pare. Grazie.

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