Avevo credo sette o otto anni quando, sul divano giallo del soggiorno piccolissimo-borghese che è stato teatro della mia infanzia berlusconiana, dallo schermo mi raggiunse la prima apparizione del divo che, a causa di un cartone Disney genialmente doppiato da Raul Bova, avrebbe di lì a poco impazzato negli happy meal e nei videogiochi. Trattavasi di Ercole. Non però del dignitoso Ercole di Dei ed eroi dell’Olimpo, magnifico librone illustrato Dami che seminava un’encomiabile passione per il classico in schiere di ragazzini giudiziosi, destinati come me al “nuovo ordinamento” delle facoltà di Lettere. Né era il grave Ercole un po’ anchilosato delle gite alla gipsoteca in quinta elementare. No: la tv mi restituiva un Ercole parlante, in carne e ossa, fresco di rasatura e coi capelloni da surfista. Un abbronzato Ercole da palestra che, sul set smeraldino del suo show americano girato in Nuova Zelanda, neanche faceva finta di trovarsi nell’antica Grecia.

Ricordo che mi appariva vecchio, desueto, esotico; un incrocio tra i bagnini raeganiani di Baywatch (in onda a pranzo sulla stessa rete) e la bonaria violenza fasulla di Bud Spencer e Terrence Hill (sempre su Italia Uno, di solito nel fine settimana). Ricordo che lo chiamavano Hercules – e che il “cul”, in quel nome inglese ma anche latino, mi faceva ridere.

Era il protagonista di una fortunata serie assai cafona, dalla cui costola sarebbe poi germinata l’ancor più fortunata serie di Xena, principessa guerriera. A differenza di Xena però, che era serenamente inventata, Hercules, pur col nome straniero o antico, un mito a cui rispondere ce l’aveva. L’incarnazione televisiva di quel mito mi torna in mente leggendo Tutti i nomi di Ercole di Walter Siti, uscito per Rizzoli poche settimane fa.

Come invecchia Ercole

Chissà se Walter Siti lo vedeva Hercules, su Italia Uno. Negli stessi anni in cui quel glaucopide dio buzzurro compariva nella mia televisione di bambino, lui abiurava i raffinati studi che lo avevano traghettato, nativo del boom, dalla campagna modenese alla cattedra universitaria (fulminanti e solo raramente incomprensibili saggi sulla neoavanguardia, su Iride di Montale, più famosamente su Pasolini) e dava alle stampe il suo primo, irrimediabile romanzo: un prosimetro proustiano e dantesco abitato da lui medesimo e da un primo drappello di culturisti, oggetto principe della sua nuova vertiginosa indagine.

Barattava le carte di Leopardi, su cui avrebbe dovuto completare una monografia, con le incarnazioni di Ercole: con un mito di approssimazione al cielo per via di merda da spalare, cinghiali da abbattere, crotali da sbatacchiare per scacciare antropofagi uccellacci, e altre fatiche.

Nello stesso anno moriva Franco Fortini, Silvio Berlusconi inaugurava la fase più esplicitamente politica della sua rivoluzione culturale, e andava in onda il primo sceneggiato di Hercules – che di tale rivoluzione avrebbe fatto parte, doppiato su Mediaset, in sette successive stagioni. È invecchiato malissimo, quell’Ercole. Non lo sceneggiato in sé, che già non era granché: dico l’attore protagonista, Kevin Sorbo.

Fanatico cristiano, sostenitore di Trump al limite del cospirazionismo, è finito, ormai oltre i sessanta, a lanciare messaggi antisemiti e richiami al patriottismo da una villa burina in Florida, schifato da Hollywood. Dalle stelle a (pur dorate) stalle, e non proprio di Augia.

Chissà se la sua storia potrebbe comparire in un libro di Siti, che forse voleva farci credere di essere invecchiato male anche lui col suo pamphlet da boomer contro l’impegno di due anni fa, o per lo meno con l’introduzione semi-crociana intorno all’oggettiva impoeticità dei copricapi dei nativi americani, apprezzata da Gerry Scotti su Canale 5 e dai miei più barbosi colleghi nostalgici.

Un simile fondamentalista della poesia però, un autore invigorito da ogni impressionante ambizione letteraria tranne quella di fare scuola (o peggio: di fare figli), non può davvero invecchiare. E Tutti i nomi di Ercole ce lo mostra.

Come (ri)nasce un libro

Il nuovo libro Rizzoli è infatti nuovo come appaiono nuove le cose pensate per durare: le cose di sartoria, i miti appunto, le ossessioni ben governate. Ripropone quanto componeva, quasi vent’anni fa, i paralipomeni di quel che sarebbe stato il capitolo finale della più celebrata trilogia di romanzi di Walter Siti, anch’essa recentemente raccolta in un volume Rizzoli.

Si trattava di quattro racconti stampati da Einaudi nel 2004, intitolati La magnifica merce, e in gran parte dedicati al referto della più struggente epifania nell’arco del mito narrativo dell’autore: la scoperta di Marcello, body builder romano abitato dal dio, droga mortale e tentazione finale, paradigma contingente dell’extrastorica idea di Ercole. La versione cinica dell’origine del libro è presto detta: sono scaduti i diritti Einaudi.

Altrettanto ingeneroso, altrettanto verosimile, sarebbe immaginare Siti, in dirittura d’arrivo con quello che ha annunciato come il suo ultimo romanzo, a rassettare le sue carte come Petrarca, per curare da sé un’ultima versione della sua opera da consegnare a una conquistata immortalità (la bibliografia in fondo al volume conta undici titoli, cui questo si aggiunge completando il fatidico numero delle fatiche).

Leggendo però si capisce che c’è ben di più. Non solo l’aggiustamento, e a volte la riscrittura, di brani che parevano appartenere a un tempo specifico (tra le torri gemelle e la crisi finanziaria) e che invece danno sempre del tu ad antiche e correnti questioni psichiche, economiche e politiche – che cos’è la forma, che cosa fa la razza, come funziona la classe in senso marxiano e non. Non solo l’aggiunta di dieci ulteriori scritti dispersi, apparsi tra il 2008 e il 2012. Ma soprattutto la felicità, che appare del tutto autentica, di aver scoperto, invece che inventato, il mito bastardo di Ercole: di essersi imbattuti in una verità ulteriore, a volte senza neanche accorgersene consciamente.

Siti si rilegge e trova Ercole ovunque si giri. Ovunque tranne che dove, mi azzardo a ipotizzare, si nasconde nella sua opera.

Le fatiche di Walter

Prima di sparare la mia tesina è bene che dica quanto sia impressionante rileggere Il colpo di pollice, fantasmagoria filologicamente sorvegliata sull’ultima notte di Pasolini, dopo il centenario appena conclusosi: trovarci, nella finzione, il verissimo scrupolo che davvero deve aver tormentato l’autore, qui celebrante delle più commoventi nozze tra le sue due professioni. Trovarci pure il nome leggendario di Dino Pedriali, restaurato dal rispettoso travestimento della Magnifica merce.

È anche impressionante leggere alcuni brani malnoti (lo stralcio di sceneggiatura Il sogno di Ercole, l’autopsia del coniugio borghese di Aspetta, non spingere) e trovarli completamente contigui al Siti d’antan sebbene freschi di un malinconico sitismo d’oggi. Quel che mi preme dire però è che c’è un aspetto del mito erculeo che Siti invariabilmente – cioè intenzionalmente – dimentica, nel suo novero di tutti gli escort (e matematici, e wrestler, e accattoni) che rispondono al nome di Ercole.

Mi riferisco all’Eromenos pubescente che accompagna l’eroe in diverse delle sue fatiche, e con l’idra persino l’aiuta, indispettendo Euristeo. Compare anche nell’Hercules della tv, accompagnato sin dal primo episodio, ambientato in una città di soli maschi, da Iolao. Mi si dirà che a Siti non interessano, banalmente, gli efebi: che Dioniso e Chalamet non gli drizzano la penna. E tuttavia quel rapporto paradigmatico d’erotica filiazione queer non è estraneo all’autofiction sitiana, giacché lega, di là dall’essenziale mediazione dello scambio di denaro, l’io narrante ai suoi Ercoli. Solo che è Ercole, in queste storie e nella seconda metà almeno del Dio impossibile, a fare il bottom: a offrire bellezza e fuggevoli assoluti in cambio di protezione e condiscendente generosità (a chiamare Walter, o chi per lui, zietto, ad associarlo o preferirlo al padre).

Mi domando insomma se il tredicesimo nome di Ercole non sia Adrian Naville, come dichiara la splendida nota finale della raccolta, ma Walter Siti. «Solo chi è schiavo può liberare gli altri», ci informa il dio dal cuore di questo libro, e la sua voce mi suona più come quella di Walter che non di Marcello.

Forse sobbarcarsi della responsabilità di subire completamente l’ossessione – di abitare i panni di un Silvio dei poveri, di ostendere sistematicamente la vergogna per una credibile ipoteca sull’eterno dal trentennio più banalmente volgare della modernità occidentale – è un atto eroico, meritevole d’Olimpo oltre che di Parnaso.

Forse, dietro al «paganesimo da baraccone», si cela una fantasia di martirio pasoliniano. Ma non vorrei indispettire Walter Siti (l’autore, non il personaggio) con simili accuse di letteratura impegnata.

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