Sulle copertine dei libri, e sulle loro coste allineate come i grattacieli d’una città impossibilmente densa di architetture sorta lungo l’orizzonte degli scaffali, si stagliano, solitamente, i nomi di chi li ha scritti. Mi paiono, rimanendo dentro la metafora ma fuori scala, una serie di citofoni. Di chi risponde quando si suona il campanello su quei nomi propri, anagrafici o inventati che siano, mi piace dire “autore”, “autrice”, invece che “scrittore” o “scrittrice”. Non perché mi senta vittima del fascino fascista dell’autorità in sé, dell’autorevolezza, dell’aut aut che distingue senz’altro chi scrive cose importanti da chi ne scriverebbe di frivole. E neanche perché non abbia letto, all’università, Roland Barthes, che celebrò la «mort de l’auteur» in un breve ma formidabile saggio luttuoso – o Michel Foucault, che aggiunse poi qualche cruciale eulogia.

Anzi, la questione è che mi sembra di sapere da sempre (o almeno, da quando ho iniziato a leggere) che “autore” è una parola magica, di quelle che non significano davvero quel che vogliono dire. È un barbatrucco. Si può d’altronde affollare più di tanto la risicata targhetta di un campanello di casa? Quanto può davvero mostrare, da sé, la minima finestra opaca che si apre su una o due righe onomastiche sotto al pulsante di un citofono?

È un po’ come lo scherzo blasfemo che il demonio in persona gioca a un Cristo esorcista nel vangelo di Marco, dicendogli che il suo nome è Legione. Come con Ygramul, forse il mio mostro preferito nella Storia infinita di Michael Ende, come nei racconti di fantascienza del Vendicatore di Zelazny, come in ogni ingresso, il pianerottolo di un nome unico conduce alla sequenza di molte stanze, abitate da molte persone. Ma divago…

Citofonare Giammei

Questa settimana esce un libro col mio nome in copertina. Dentro a quel libro faccio proprio quello che uno studioso come me, si dice, non dovrebbe fare: ragiono molto sui fatti miei – oltre che su pittura rinascimentale e serie tv di Netflix, poemi epici e film di Star Wars.

Dico, insomma, un sacco di volte “io”. E tuttavia, se tu suonassi al mio nome su quella porta di carta, di lettere, non è detto che sarei io a rispondere. Giacché lettere e carta non si combinano mai nell’incantesimo di un mostro solo, di un diavolo unico, di un fantascientifico eroe scompagnato, neanche quando le si usa per stilare una lista della spesa. Questo libro, Cose da maschi, è nato proprio come una lista.

Due estati fa, ben prima di sapere che sarebbe diventato un libro, mi sono messo a elencare gli oggetti che volevo raccontarci dentro. È la pratica del syllabus, cioè del programma di un corso da tenere all’università: si parte da una serie di cose (poesie, quadri, film, saggi), più o meno chiaramente in relazione a un tema, con la promessa di sviscerare quel tema in classe attraverso di esse.

Ero sul ciglio di un anno sabbatico, cioè di quindici interi mesi da dedicare alla ricerca senza corsi da insegnare, e temevo che, privo di quell’appuntamento settimanale con gli altri (con gli studenti, con le cose d’altri che spiego loro e che loro fanno nostre), sarei diventato più ottuso, più disordinato, meno intelligente. Il farmaco che mi assegnavo consisteva nell’interrompere ogni altra attività di martedì per dedicarmi a un punto della lista, e condividere quel seminario interiore con una pluralità d’altre persone, suonando file di campanelli.

Citofonare Falzone

Tu che leggi Domani sai già che il tema di quella lista era la maschilità, che l’aula era quella in cui ci troviamo, senza cattedra né podio, ora (cioè la pagina, digitale o di carta, del giornale; la casella di posta in cui per cinquanta volte ti ha raggiunto la newsletter collegata a questa rubrica).

Quel che forse non sai è che circa un anno fa, mentre ero a Roma per un soggiorno inaspettatamente prolungato, mi ha scritto da Parigi un artista. Seguiva quel che andavo scrivendo, gli pareva che facesse rima con quel che lui andava disegnando – o meglio, tagliando e incollando giacché, tra i molti incanti visuali del suo arsenale, quello preferito era il collage: l’incontro sulla pagina di cose spurie, di strati senza possibili sfumature, di forme e colori materici. Didier Falzone mi proponeva di disegnare ognuno dei punti della mia lista, aggiungendo al mio appuntamento con la pagina quello, poche ore prima, con la sua visione.

Ecco, ora che Einaudi stampa sei di quelle visioni tra le duecento pagine che in autunno sono cadute come foglie felici dall’albero radicato nella lista sgranata qui su Domani, quel che vorrei confessare è che avrei disertato più di un martedì di scrittura, negli scorsi anni, se non fossi stato febbrilmente curioso di vedere cosa Didier avrebbe escogitato col suo taglierino.

Il suo nome, sulla copertina, non c’è, ma il profilo senza connotati, con la cravatta lilla e i discreti orpelli metallici di un maschile nuovo e antico, è il prodotto del suo mestiere, della nostra alleanza. Mi domando se chi scriveva e chi disegnava i favolosi libri d’emblemi del barocco mediterraneo e olandese si sentissero così: due eliche di un motore che dimentica la fatica danzando nell’acqua. Se nelle officine della stampa a torchio, dalla Venezia di Manuzio alla Verona di Franco Riva, compagni creativi vivessero una simile amicizia intellettuale tra maschi, forse imparentata con quelle tra femmine cantate da Elena Ferrante.

Citofonare Pierantozzi

L’altro nome che non compare sul citofono di questo libro palazzo, in cui hai residenza anche tu che leggi e che forse eri tra coloro che mi hanno anche scritto in questi mesi di settimanale esercizio scanzonato, è quello di Ivano Pierantozzi. La prima a pensare alle mie lettere, ai miei articoli, come a un libro sul fatto che la maschilità è sempre stata fluida (e che oggi bisogna semmai imparare a nuotarci sereni) è Chiara Melloni, un’elegante e coltissima spilungona che fa l’agente letteraria. Ma è alle mani di Ivano che mi ha affidato subito. O meglio, ai suoi capelli inopinatamente ricci, ed esplosi come un cespuglio, in cui ho finito per fare il nido.

Mi interrompe, mentre scrivo queste righe, un suo messaggio: mi augura, nel cuore della notte, che il libro che ha cavato dal mio manoscritto sfacciatamente lungo e arzigogolato (potando, travasando, incoraggiando come si fa con le piante) abbia fortuna. Mi invita a lasciarlo andare, via dal cespuglio e dal nido. Con la pazienza e la cura che di solito ci aspettiamo solo da chi cresce femmina, questo editore serenamente nervoso ha covato Cose da maschi pur attraversando rovinosi infortuni, fisioterapie, addirittura un esordio commovente nella paternità, mostrandomi che le mie ossessioni (i cartoni giapponesi e le sorelle Wachowski, l’immaginario cavalleresco e quello omerico) erano in realtà nostre. Che siamo forse tanti noialtri secchioncelli femministi, materni e spadaccini, e che vale la pena sopportare i troll nei commenti sui social della casa editrice – come un tempo sopportavamo i bulli in aule meno simpatiche di questa – per scampanellarci a vicenda e renderci conto che il medesimo citofono apre elettricamente ognuno dei nostri cancelli.

Citofonare Murgia-Valerio

Sì lo so, la sto facendo sentimentale. E non sto davvero promuovendo il libro. Ma l’obiettivo di questo laboratorio non era proprio quello di provare a immaginare le maschilità (anche quella autoriale) secondo condotte altre da quella corrente? Mi sento davvero un americanone strappacuore a dire che uno dei brani che vado più fiero di aver scritto, in Cose da maschi, sono i ringraziamenti alla fine – in cui tra l’altro prendo in giro la spiccia anaffettività glaucopide del direttore di questo giornale, Stefano Feltri, manifesto il mio debito nei confronti di Serena Vitale, che con diligenza straordinaria cura da un anno e mezzo la nostra newsletter, e rendo omaggio alla fraterna astuzia sorniona di Beppe Cottafavi nonché alla generosità di chi ha reso questa rubrica un condominio, offrendole articoli splendidi.

In testa ci sono i ringraziamenti alle amiche che, conversando, mi hanno guidato fin qui: da Maria Luisa Frisa, regina del closet, a Jhumpa Lahiri, maestra di understatement. È al telefono con due di loro che tutta questa faccenda mi è venuta in mente, a dir la verità. Michela Murgia mi diceva «scrivi una cosa importante». Chiara Valerio mi diceva «scrivi una cosa divertente». Mi pare soprattutto di aver scritto una cosa duplice, una casa duplex, una casona da maschi in cui non sai mai chi verrà a rispondere al campanello.

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