Un lunedì di pochi anni fa, a Lione, un’energica signora di 87 anni, ex campionessa di corsa, annuncia telefonicamente ai figli che si recherà alle terme, come d’abitudine, ma crolla in cucina prima di mettersi in viaggio. Infarto fulminante. Siccome sono abituati al rapporto distratto della madre con il telefono, il silenzio dei giorni seguenti non li preoccupa. Finché la figlia, che vive a duecento metri da lei, non è colta da presagio e corre a controllare. La notizia raggiunge l’altro figlio a Bruxelles, dove vive da anni: è il romanziere e drammaturgo Eric-Emmanuel Schmitt, 60 anni, uno degli autori in lingua francese più letti al mondo. I suoi libri, nei quali con sapiente leggerezza si interroga sulle grandi e piccole questioni dell’uomo, sono diventati celebri film e pièce teatrali: Monsieur Ibrahim e i fiori del corano, Il visitatore, Piccoli crimini coniugali e tanti altri.

Nel suo nuovo libro, Diario di un amore perduto, che esce ora in Italia per l’editore e/o (traduzione di Alberto Bracci Testasecca), Schmitt definisce «sordida» la storia «intorno alla morte di mia madre». Se andiamo al dizionario, troviamo che il termine significa “sporco”, “sudicio”. In senso figurato, l’aggettivo rimanda a qualcosa di ripugnante dal punto di vista morale. Per Schmitt, dunque, le circostanze della morte della madre sono immorali? Forse perché è rimasta distesa «vari giorni» nella sua cucina, anche se il referto parlerà di morte istantanea, senza sofferenza? Oppure perché in quei «vari giorni» la vita è proseguita “come se”, a dispetto di un cadavere abbandonato? In un momento in cui la pandemia ha costretto le persone a dire addio in circostanze “sordide”, lasciando che i genitori partano da soli, il libro di Schmitt tocca corde profonde e irrisolte. È un libro sulla natura dell’essere figli e sull’importanza della fine, come se questa natura si riveli soltanto, e troppo tardi, nel momento della separazione.

Offerta votiva

Il buco di «vari giorni» raccontato nel suo libro, durante i quali la vita ha proseguito “come se”, riporta stranamente alla memoria quanto accadde al lituano naturalizzato francese Romain Gary, lo straordinario autore de Le radici del cielo. Gary visse tre anni “come se” la madre fosse ancora viva, e invece era morta. Dislocato in Inghilterra come aviatore durante la guerra, tornò a Nizza nel 1944 e scoprì che la madre Mina, immigrata ebrea che lo aveva tirato su prodigandosi in mille sacrifici, era scomparsa nel 1941. Lui la credeva in vita perché continuava a ricevere lettere che la madre aveva consegnato a un’amica in Svizzera. Nel bellissimo Il senso della mia vita, Gary scrive: «Non ha mai saputo che io ero vivo, non ha mai saputo che ero diventato ufficiale della Legion d’onore, compagnon de la Libération, autore conosciuto e futuro rappresentante della Francia all’estero, come lei aveva deciso in un sogno che mi sembrava insensato quando eravamo rintanati in un cantuccio della Lituania o in un piccolo appartamento di Varsavia e lei mi intratteneva con le sue leggende future…». In questa formula, “leggende future”, sembra racchiuso il segreto di un legame: essere figli in quanto portatori di una fantasticheria da realizzarsi, nient’altro che un meraviglioso fardello, un peso sublime. Il compito del figlio è allora quello di riportare a casa, di risarcire?

Strabiliante, a questo proposito, la somiglianza con quanto accaduto ad Albert Cohen, autore di uno dei più celebri romanzi in lingua francese del Novecento, Bella del Signore. Ebrei di Corfù emigrati in Francia anche loro, la madre Louise morì da sola a Marsiglia nel 1943 mentre lui era rifugiato in Inghilterra. Ne Il libro di mia madre Cohen rievoca il loro arrivo a Marsiglia e i sacrifici di quella donna rimasta presto vedova che impegnava i gioielli di famiglia («il suo onore di dama orientale») per sostenerlo agli studi: «Io prendevo quei soldi e non sapevo, da figlio qual ero, che quelle umili grosse somme erano l’offerta votiva deposta da mia madre sull’altare della maternità. O sacerdotessa di suo figlio, o maestà che troppo tempo impiegai a riconoscere. Troppo tardi adesso». Lo scrittore sembra chiedersi quanto ci sia da vergognarsi del mancato risarcimento. Dal canto suo, la vergogna aveva spinto Romain Gary a scappare di casa il giorno in cui sorprese la madre intenta di nascosto a far la scarpetta nella pentola unta, dal momento che l’unica fetta di carne – “l’offerta votiva” – era destinata a lui. I loro racconti pongono la domanda: quanto pesa il rimorso nel nostro diventare adulti, e quanto lo carichiamo sulle spalle delle madri? La domanda è anzi sconcertante: perché giudichiamo il loro amore una colpa?

Nel recente libro di Schmitt l’ombra che investe la fine sembra essere tuttavia l’unico punto oscuro in una storia luminosa, a giudicare dalla frase con cui apre il racconto: «Mamma è morta stamattina. È la prima volta che mi fa soffrire» (riecheggia il Camus dello Straniero: «Oggi la mamma è morta»). Il libro si legge infatti come l’ode a un rapporto cristallino: «Mamma mi illuminava, io la illuminavo, eravamo raggianti, invincibili». E più avanti: «Mamma mi guardava come un essere unico, incomparabile, talentuoso. Questa è la chiave del mio destino: ho creduto nello sguardo di mia madre». Il libro di Schmitt, una dolente elaborazione del lutto in cui lo scrittore rivela per altro di aver pensato al suicidio, è di fatto la storia di un rispecchiamento dal quale, tutt’al più, è il padre a rimanere escluso. La storia, in fondo, di un rapporto esclusivo: e quanto, viene da chiedersi, del dolore del dopo sia da ricercare in quell’esclusività?

Immagini imprecise

Nei primi anni Settanta Georges Simenon torna a Liegi, da dove se n’era andato a diciannove anni, e resta una settimana al capezzale della madre che lo osserva muta con un sorriso stirato sulle labbra: «Noi non ci siamo mai amati, quand’eri viva – lo sai bene. Abbiamo fatto finta, tutti e due», scrive. E poi: «Oggi sono convinto che ognuno di noi avesse, dell’altro, un’immagine imprecisa». D’altra parte, lei lo aveva sorpreso: «Perché sei venuto, Georges?». E lui riflette: «Più tardi queste parole, che continuavano a pesarmi sul cuore, e per cui mi arrovellavo, forse mi hanno spiegato qualcosa di te». Simenon scrive: «qualcosa». Il padre del Commissario Maigret ammette che fino in fondo il mistero di quella donna non sarà mai spiegato: la donna che un giorno, ormai anziana, gli aveva riconsegnato tutti i soldi che il figlio milionario le aveva spedito nel corso di cinquant’anni. In altre parole, gli aveva negato il processo di restituzione, di riparazione. Lettera a mia madre è senza dubbio uno dei grandi capolavori dello scrittore belga perché mette in crisi questo paradigma: cos’è un figlio, se non può restituire?

È un po’ lo stesso mistero, sebbene meno coriaceo, davanti al quale si trova Simone de Beauvoir nel 1963 quando sua madre, dopo essersi rotta un femore, comincia una lenta discesa senza ritorno. In quel momento la scrittrice è all’estero con Sartre e in Una morte dolcissima, scrive: «Non tenevo in modo particolare a rivedere mamma prima della sua morte; ma non sopportavo l’idea che lei non mi avrebbe riveduta. Perché dare tanta importanza a un attimo, dal momento che non ci sarà memoria? Ma non ci sarà nemmeno la possibilità di riparare». Ecco la verbalizzazione del problema: la possibilità di riparare. Di onorare, per dirla con Albert Cohen, “l’altare”. Ma fa qualche differenza esserci “in quell’attimo”?

Sembra di no, poiché come Simenon, anche de Beauvoir, per settimane al capezzale della madre, non può far altro che constatare la reciproca “immagine imprecisa”: «Il nostro antico rapporto, dunque, sopravviveva in me sotto la sua duplice figura: una dipendenza amata e detestata». Così accade anche ad Annie Ernaux, la grande autrice de Gli anni, che in Una donna cerca di decifrare la madre durante i due anni di ricovero prima della morte, dandosi il compito dell’oggettività: «Questa non è una biografia, né un romanzo, naturalmente, forse qualcosa tra la letteratura, la sociologia e la storia». Ma quale storia? È sempre, a ben vedere, la storia di una fine: e di una fine che, qualunque sia il modo, il tempo, la circostanza in cui accade, è sempre un po’ sordida. Albert Cohen scriveva: «Mia madre è morta ma io ho fame e tra poco, malgrado il mio dolore, mangerò. Peccato di vita».


Eric-Emmanuel Schmitt è autore del libro Diario di un amore perduto, edito da e/o e tradotto da Alberto Bracci Testasecca

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