Chissà se muoiono davvero, le lingue che chiamiamo “morte”. Il latino, in molte università americane, si insegna come una lingua parlabile, e infatti Mel Gibson ne mette in bocca una viva versione – in realtà medievaleggiante – ai centurioni nel suo film sulla passione di Cristo, in cui Cristo parla un aramaico ricostruito dai filologi che sembra la lingua dei dothraki di Game of Thrones, o il klingon di Star Trek.

Ma non serve andare tanto in là con la cronologia. L’inglese di Shakespeare non lo parla più nessuno (anche i miei studenti americani faticano a leggerlo), eppure è da lì che nascono espressioni di altrimenti inspiegabile uso comune – anche in italiano: non è tutto oro quel che luccica, rompere il ghiaccio, e così via.

Quando qualcuno resiste all’uso inclusivo del pronome neutro they, percepito come novità politically correct (una specie di schwa o di asterisco inglese insomma), gli si fa presente che Shakespeare lo usava. Certi morti, d’altronde, hanno più autorità dei vivi. È una questione genealogica dunque, di potere ancestrale che, di generazione in generazione, si diluisce, allontanandosi da una più pura e potente scaturigine? È per questo che la strega adolescente Sabrina su Netflix, i maghi di Harry Potter e i satanisti di mezza filmografia horror usano il latino, invece delle loro lingue correnti, per compiere prodigi?

Edoardo Sanguineti e Giovanni Giudici, cinquant’anni fa, imitavano in poesia il Dante di seicentocinquant’anni prima: lo sceglievano dichiaratamente come progenitore, si ponevano genealogicamente a valle di lui. Ottenevano però, da una simile operazione, due lingue poetiche quasi opposte, entrambe assai meno comprensibili per i miei studenti di letteratura italiana (sia gli anglofoni che, devo dire, quelli che parlano italiano dalla nascita) rispetto all’idioma ben più antico, ben più teoricamente morto, della Divina Commedia.

La metafora genealogica dovrebbe aiutarci a essere meno luttuosi e nostalgici contemplando la lingua: dovrebbe ricordarci che ogni parola o idea del passato non è mai perduta fintanto che un pezzo di carta, un frammento di memoria, un metro di nastro magnetico o una stringa di codice ce la tramandano. Che abitiamo, insomma, sempre un punto su uno spettro ininterrotto in cui nulla si crea e nulla si distrugge, come nelle continuità fantasmagoriche del multiverso dei supereroi che Loki, il dio asgardiano dei sotterfugi, cerca di incasinare nella serie tv che porta il suo nome.

E tuttavia, per come intendiamo la genealogia da qualche secolo a questa parte, rimane in questa visione arborea dell’immortalità delle lingue un freudiano rischio necrofilo – lo stesso che anima la mia tragedia preferita di Shakespeare, Amleto. Uno degli effetti del patriarcato è infatti quello di impigliare i vivi nelle supposte intenzioni dei morti: di immobilizzare la progenie dando ai fantasmi padri (e ai padri dei padri, e così via fino alla radice ultima di un’ipotizzabile origine ordinatrice di tutto) un potere assoluto di re. E dunque se non lo diceva Shakespeare, se non lo diceva Dante, non si dice.

Bustə danteschə

Dante dice due volte, nell’Inferno, la parola “busto”. Nella Monarchia dice una volta la parola “busta”. Si tratta in realtà quasi della stessa parola in tutti e tre i casi, perché la Divina commedia è scritta in italiano mentre la Monarchia è scritta in latino – e in latino “busta” è l’accusativo plurale di “bustum”, che significa “tomba”. Lo significa perché “ustum” (si pensi a ustione, ustionare) significava “bruciare”, e l’ambustum doveva dunque essere una pira funeraria.

Fu Francesco D’Ovidio, leggendario filologo del secolo scorso che a Napoli occupò la cattedra di «storia comparata delle lingue neolatine», a ipotizzare che, sbiadita l’origine fiammeggiante ma rimasta l’associazione con la sepoltura, la parola “busto” sia infine rimasta appiccicata alle sculture che si pongono sui monumenti funebri – solitamente dei mezzibusti, appunto, che ritraggono l’abitante del sepolcro. Da quei parziali corpi di pietra dei morti il termine si sarebbe esteso al torso dei vivi – nonché a un certo rigido indumento tipico delle vive di un tempo.

Scrivendo nella lingua morta, insomma, Dante dice “busta” per dire tomba: addirittura, nella Monarchia, sta citando un suo progenitore, Ovidio, che nelle Metamorfosi raccontava come gli sfortunati amanti Piramo e Tisbe si dessero appuntamento «ad busta Nini» (presso la tomba del re Nino), all’ombra di un albero. Scrivendo invece nella lingua viva, Dante dice “busto” per intendere quel che oggi chiamiamo ancora busto: usa la parola per descrivere, nel canto XVII, il mostro Gerione, che ha faccia d’uomo ma torso di serpente (e branchie, e rotelle, e altre mirabolanti peculiarità) e, nel canto XXVIII, per costruire una scena da Silent Hill: un torso decapitato che tristemente avanza con la propria testa, come una lanterna, in mano – è Bertrand de Born, un altro suo progenitore (ma provenzale, non latino), che lo apostrofa da necromante: «Tu che, spirando, vai veggendo i morti».

Il “busta” latino e il “busto” italiano di Dante radicano nella medesima genealogia linguistica, sebbene di primo acchito non sembri. L’antico significato di tomba si aggira, non-morto, in quello odierno di torso: al contrario del pellegrino all’inferno, è un estinto tra i vivi, uno zombie.

Casse da morto

Busta, tuttavia, è anche una parola italiana – sebbene Dante non la adoperi mai. Friedrich Christian Diez, filologo tedesco in disaccordo con D’Ovidio, riteneva 150 anni fa che “busto” fosse semplicemente una forma maschile della stessa parola in latino medievale che dà “busta”, a sua volta imparentata con le parole francesi e inglesi per “scatola”, “contenitore di legno”.

Diez ha chiuso insomma busto e busta in una cassa da morto, associando il maschile alla gabbia toracica che custodisce gli organi e il femminile all’ermetica chiusura della carta sulla lettera che contiene. L’ipotesi vale solo, se D’Ovidio e più recenti studi etimologici hanno ragione, per il femminile, che non è in realtà femminile di nulla: “busto” e “busta” non discendono dalla stessa scaturigine, hanno progenitori diversi, sono immodificabili per genere. E “busta”, curiosamente, sembra più giovane di “busto”.

Come Winona Ryder nel Dracula di Francis Ford Coppola (e come la protagonista dell'ultimo romanzo, sempre su Dracula, di Chiara Valerio, di cui è progenitrice) la “busta” che comincia ad apparire, secondo i dizionari, in Carducci, Verga, Svevo (cioè tardi, e che oggi si usa ben più spesso del già dantesco “busto”) è identica alla “busta” latina di Ovidio citata nella Monarchia di Dante e, ciononostante, è un’altra parola, un’altra più nuova fanciulla verbale che non ha camminato granché, da zombie o vampira, tra i vivi – come invece il suo apparente maschile.

Chissà che, smaterializzatesi ormai le lettere in email (la cui icona universale rimane una busta), questa parola, una volta morto il suo cartaceo corrispettivo materiale, non sopravviva come il suo simile maschile “busto”, prendendo a significare qualcos’altro – dalla cassa di legno alla custodia di carta a chissà quale più eterea realtà futura che, spirando, andrà veggendo i morti.

Vitalità romanesche

A dire il vero un qualche vivace guizzo post-mortem già si può considerare. Se più propriamente (e più spesso, nelle regioni nordiche) al supermercato si pesa la frutta e si porta via la spesa in un “sacchetto” (da una parola attica, forse di origine fenicia o semitica, per “panno”, da cui il concetto di borsa o sporta di tela), a Roma si dice senz’altro “busta” per quei contenitori di plastica o di stoffa.

A quell’evoluzione locale si deve il corrente concetto di “busta” in romanesco – che, più che un dialetto, è una parlata dell’italiano standard: quella, per capirci, che a quanto pare risulta incomprensibile ai detrattori di Zerocalcare. Si dice che è “una busta” una cosa deludente e spiacevole, una fregatura (es. ‘sta recensione de Zerocalcare è “na busta”) perché, ancora quando io ero ragazzino, si diceva “busta” per dire “donna poco attraente”.

Ritengo che l’origine di un tale scarto radichi nell’espressione “busta de fave”, legata a un’esperienza facile da immaginare: se riempite di fave un sacchetto della spesa, esso risulterà bitorzoluto e brutto. Ritengo anche che il più duro, più gratuito “busta de piscio” (che vale sia come epiteto misogino che come manifestazione di delusione per eventi e cose inanimate) sia un più recente, meno fantasioso excursus del lemma pellegrino nel regno dei morti semantici. E trovo squisito il puro caso che vuole, come efficace maschile di “busta” nel romanaccio del Ventunesimo secolo, la parola “torso” (es. ‘nun je piace Zerocalcare ed è pure “n torso”), che in italiano significa “busto”.

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