Non so perché, di questi tempi, persino luminari della grammatica e della linguistica parlino dell’italiano come di un cristallizzato marchingegno di rifinita purezza che va protetto dalle ibridazioni, dalle scorrettezze, da ciò che “suona proprio male” o, per chi si sente particolarmente colto, “è cacofonico”. Come se millenni di evoluzioni morfologiche e secoli di raffinamento in versi e in prosa avessero bisogno, proprio ora che questa lingua conta più parlanti di quanti ne abbia mai avuti, di essere difesi da chi li abita; come se tutto potesse mai continuare a suonare identico a sé stesso in un’infinita accordatura sul medesimo incorruttibile diapason.

Certo che suona male la schwa, per dire: una delle sue funzioni è proprio quella di farsi notare, di inceppare il discorso, di mostrare che la lingua, incapace di superare il binario di genere senza estendere il maschile a chiunque nomini, ha un difetto, un’ansa cava in cui c’è spazio per escogitare qualcosa. È un discorso talmente banale e sereno, eppure lo si tratta come fosse dinamitardo. Se la lingua fosse capace di far tutto quello che ci serve, d’altronde, non esisterebbe la poesia: Dante stesso, che della nostra chiamiamo padre, impiega cento canti per arrivare a dire che non sa dire la cosa che dovrebbe dire alla fine (e proprio facendo così, la dice).

L’annunciata vacanza dalle cose che Cose da maschi si prende questo luglio – una villeggiatura nel reame delle parole (e della loro grammaticale maschilità) – è in realtà solo apparentemente un congedo dal mondo feriale delle polemiche, dei dibattiti, del potere e via dicendo, perché la lingua è irrimediabilmente, essenzialmente politica – specie quando si prega di non politicizzarla.

Vorrei arrivare, con le cinque parole al centro dei cinque articoli di questa edizione estiva, a ragionare di come la differenza tra maschile e femminile sia meno totalizzante, meno stabilita, meno primordiale (addirittura meno sessuale) di quanto non si creda, e di come le differenze tra i corpi, analogamente a quelle tra le parole, siano in realtà mortificate se le riduciamo a un’unica macroscopica divisione in due.

Ma, essendo un professore enfatico nonché millennial nerd chiacchierone, la prendo larga, partendo proprio dalla lingua in sé e da come mi pare di aver capito che funzioni negli anni che ho trascorso in sua compagnia come studente di glottologia, filologo in erba, utente di biblioteche di storia linguistica, studioso di etimologi e onomaturghi, insegnante d’italiano e d’italianistica.

Illustrazione di Alessandro Giammei

La settimana scorsa, per lanciare “Cose da Maschi in estiva”, ho inviato una newsletter senza articolo linkato. Questa settimana invece l’articolo c’è e, all’inverso, vorrei parlarne poco in queste righe. Ci terrei insomma particolarmente che lo leggeste qui sul sito di Domani, aperto a chiunque clicchi anche senza abbonamento – oppure sabato, quando uscirà in edicola sul giornale di carta. Ci terrei perché è un articolo un po’ meno scanzonato e un po’ più invasato del solito, un avvitamento mentale in cose di cui mi spaventa ragionare perché, nella tribù accademica di cui faccio parte, sono sorvegliate da custodi poco accoglienti.

Mescolando etimi proto-indoeuropei a Tolkien e Star Trek, le origini della lingua a quelle del mio nome (e cognome), e la vicenda di Rei e Kylo Ren a quella delle parole quasi omografe e omofone che divergono per etimologia e genere grammaticale, rischio di meritarmi lo scherno di chi cura i dizionari e i lessici che ho usato per scrivere l’articolo- e dunque non riesco a dirne granché in meno delle 8mila battute che ho avuto a disposizione per stenderlo. D’altronde siamo in estate, gli esami sono quasi finiti, chi ha le ferie comincia a prendersele, un po’ di tempo in più per leggere, forse, c’è.

Prometto che la settimana prossima provo ad articolare qualcosa sulla catastrofe americana intorno alla legalità dell’aborto, di cui non riesco ancora a dire niente perché, da maschio-cis migrante in questo paese, sono sgomento, attonito. Mi domando se l’accanirsi a scrivere cose secchione e vertiginose non sia, da parte mia, un meccanismo di difesa – un mio professore di filologia, alla Sapienza, ci diceva che l’accademia è soprattutto un rifugio, anche se nel frattempo tre italianiste sue colleghe e coetanee ci dicevano invece che è un campo di battaglia, privilegiato ma per questo più bisognoso d’impeto.

In ogni caso, fatemi sapere cosa ne pensate. E, se vi vengono in mente, segnalatemi altri casi di parole che, come quelle su cui si chiude l’articolo, sembrano maschio e femmina del medesimo concetto ma sono in realtà arrivate nella nostra lingua da peregrinazioni autonome lungo i flutti della storia degli esseri umani e dei loro idiomi – già negli ultimi giorni me ne sono arrivate un paio cui non avevo pensato per email, e la cosa mi ha elettrizzato. Grazie!

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