Sono anni che ci si chiede che fine ha fatto la comicità televisiva, mentre i televisivi si chiedono che fare del genere. Un’intera leva di comici nata tra la metà degli anni Cinquanta e i Sessanta, dopo avere riscritto i codici del fare ridere, è da tempo scomparsa. Per semplicità la possiamo dividere nei due poli magnetici della Rai2 di Carlo Freccero (il mondo Dandini) e dell’Italia1 della Gialappa’s Band. Da Guzzanti al Mago Forest, da Luttazzi ad Aldo Giovanni e Giacomo. I più di questi hanno sofferto dell’usura e della scomparsa della seconda serata. Ma anche, inevitabilmente, dei cambiamenti del gusto e dei tic della comicità.

Anche il mondo del cabaret, dopo avere alimentato il cinema e la tv degli anni Ottanta e aver trovato in Zelig la propria exploitation, ha finito per spegnersi lentamente, smarrendo la capacità di fare ridere vaste platee popolari. Da lì in avanti la comicità ha faticato non poco a trovare spazi in televisione, riducendosi spesso a “numero” all’interno di talk show politici, da Ballarò in poi, senza mai guadagnarsi un ruolo di primo piano. Nel frattempo esondava in rete, fino a trasformarsi in registro prevalente dello stare sui social, nella forma dell’ironia continua e insistita verso qualsiasi cosa, perfino le tragedie.

Un fenomeno recente, se non altro in Italia, arrivato a bordo del transatlantico YouTube, è stato quello della stand up comedy. Prima con le traduzioni dei grandi maestri americani (Prior, Carlin, Hicks), poi con gli speciali comici di Netflix, anche di comedians locali. La satira politica è quasi del tutto scomparsa e ha fatto il suo ingresso in scena la satira sociale o di costume, che altrove ha sempre avuto una sua forza precipua. È nata una nuova generazione di comici, da Saverio Raimondo a Giorgio Montanini, fino a Lundini e Fanelli. Tutti molto bravi, capaci di trasformare la comicità in Italia, ma tutti molto poco popolari.

Saverio Raimondo sulla tv generalista ci va, perfino da Vespa, ma occupa un piccolo spazio. Una pezza di Lundini è stato un fenomeno del 2020, un’opera di genio e di grande successo sui social ma dagli ascolti televisivi contenuti, in una collocazione di palinsesto spesso ballerina (quando andava in onda esattamente?). Non a caso molti di questi nomi vengono dall’esperienza di Comedy Central, un canale tematico, di nicchia, dove il concept del late night americano ha potuto incarnarsi senza limitazioni. Per chiudere la panoramica di questa diaspora delle tribù della comicità corre l’obbligo di segnalare tutti quei gruppi comici che hanno trovato in YouTube il terreno ideale per sperimentare e mettersi alla prova; fenomeno dalle molteplici incarnazioni che ha in The Jackal il suo campione più conosciuto.

Eppure ridere è una pratica diffusa in Italia e da qualche parte la comicità popolare, quella che trova il minimo comune denominatore capace di scoppiare le bolle, fenomeno comico di suo, come sanno i bambini, doveva trovare il suo sbocco.

Cercare di non ridere

A quanto pare questo sbocco è stato Lol (Last One Laughing) di Amazon Prime Video. Format creato dal giapponese Hitoshi Matsumoto per Amazon, che ne ha fatto sei adattamenti locali, compreso quello italiano. L’idea è molto semplice (sono le idee semplici a funzionare in tv) e si basa su un collaudato standard della comicità: cercare di non ridere, presente fin dagli albori della televisione americana, si veda Make me Laugh in onda su Abc (1958) o il gioco in scatola Don’t Laugh. Nella versione originale di Lol i comici mettono sul tavolo una posta e l’ultimo che rimane in gioco vince il premio, un’idea che rimanda alla capacità del giocatore di controllare le proprie espressioni, tutti quei dodici muscoli facciali che mettono in moto l’argano del sorriso (poker face). Negli adattamenti questo elemento si perde, ma poco importa.

Non sappiamo quanti hanno visto il programma ma sappiamo che se ne sta parlando molto, generando una quantità spropositata di meme, che sono l’equivalente odierno delle battute ripetute dalla gente comune per scherzare in compagnia. Va detto che il programma ha radicalizzato molto i commenti, chi ha amato il programma alle lacrime, chi non ha riso e ha finito per interrogarsi, per l’ennesima volta, su che razza di mondo viviamo. C’è chi ha sottolineato che la mancanza del contrappunto della risata getta un’ombra di tristezza su tutto, come in tempi recenti la mancanza di pubblico in studio ha sconsigliato ai comici di esibirsi (Sanremo ha provato a salvarsi con gli applausi finti ma senza grande successo).

Le ragioni del successo

Lol ha però avuto l’indubbio merito di essere piaciuto a persone molto diverse tra loro, trovando una sorta di minimo comune denominatore del gusto che, come si diceva, è alla base della televisione popolare. Lo ha fatto con intelligenza e con un cast esagerato. Dieci comici buoni per tutti i palati. C’era un pezzo della tradizione comica di Rai2/3 (Lillo, Caterina Guzzanti, Elio), uno di Italia1 (Pintus, Katia Follesa), uno di Sky (ancora Elio, Frank Matano, Fedez, Mara Maionchi), uno della stand up alla Comedy Central (Michela Giraud, Luca Ravenna), uno di web (Ciro, Fru e ancora Matano). Chiunque poteva trovare la sua chiave di ingresso, uno di quei casi in cui il risultato vale più della somma dei singoli componenti.

A chi piaceva uno a chi l’altro: il tifo e la competizione sono stigma del nostro tempo. Nasce su Amazon, ma è televisione. Nasce su una piattaforma e come una piattaforma fuori dalle acque territoriali guarda il continente televisivo con la libertà di destrutturarlo e ricomporlo a piacimento, fino a ottenere qualcosa che in tv faticherebbe ad andare in onda, soprattutto per il formato e la pezzatura brevi. Dalla tv impara anche ad evolvere la sua proposta di consumo riscoprendo il palinsesto, la sincronizzazione dei tempi di visione, il rilascio ritardato delle ultime due puntate che abbiamo guardato tutti insieme, nello stesso momento, alla faccia dell’on demand.

Lol funziona perché unisce la comicità di situazione al format del reality show di montaggio. Un po’ sitcom, da questo punto di vista, senza le risate finte. Funziona come una festa in casa dove gli invitati vengono da ambienti sociali molto diversi e all’inizio stanno sulle loro, non si conoscono, poi qualcuno rompe il ghiaccio con un numero, qualcun altro fa girare l’alcol, tutti si sentono in dovere di mettersi in mostra, l’atmosfera si riscalda e nell’irripetibilità della performance sociale nascono tentativi abortiti di fare ridere e perle di insuperabile bellezza comica. Non ce n’è uno che non faccia il suo, non sia coinvolto, ognuno col proprio stile, i propri cavalli di battaglia, un forzato della comicità, che fa ridere e allo stesso tempo ha qualcosa di disperante, come il Gigi Baggini di Tognazzi, attore in cerca di parte, che balla uno strabiliante (straziante) tip tap infinito su un tavolino da caffè nel bellissimo Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli.

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