«Non è facile fare una televisione perché non esiste un know-how per la televisione privata. Non esistono i tecnici, e quindi noi stiamo formando dei giovani che a poco a poco diventeranno professionisti. Non possiamo prendere i tecnici Rai, in primis perché non lasciano facilmente la Rai, e poi perché hanno un altro modo di lavorare che non va bene per le tv private».

Quale fosse l’idea di televisione di Silvio Berlusconi, morto all’età di 86 anni, era piuttosto chiaro sin dagli esordi di TeleMilano 58, l’emittente che il Cavaliere aveva acquistato come Telemilanocavo dall’imprenditore Giacomo Properzj (che poi diventerà presidente della provincia di Milano per il Partito repubblicano italiano) e fatto traslocare sull’etere, reso disponibile anche per le tv private in seguito alla sentenza della Corte costituzionale nel 1976. Una televisione, dunque, che si ponesse al servizio di un’alternativa rispetto al monopolio pubblico, che rivendicasse una propria fisionomia, che potesse in un certo senso “fare scuola”.

Alternativa al modello Rai di quegli anni, ma anche profondamente speculare, capace di costruire un’offerta competitiva e complementare allo stesso tempo, che sfidasse il servizio pubblico sul suo stesso terreno, nei generi e nei contenuti come nella loro organizzazione di palinsesto. In fondo, quella di Berlusconi è sempre stata una tv in bilico tra innovazione e conservazione, interpretando nel profondo uno spirito nazionale diffuso.

Il primo attacco

Il primo attacco frontale al monopolio Berlusconi lo porta nel 1980, quando Canale 5 (così da poco era stata rinominata Telemilano 58 dando origine a una lunga storia) s’inserì nella trattativa per l’acquisto dei diritti del Mundialito, una competizione tra nazionali di calcio che si sarebbe svolta l’anno successivo in Uruguay. Ne uscì vincitore, costringendo la Rai a un accordo che le consentì di trasmettere almeno le partite della nazionale italiana e la finale del torneo, ma perdendo di fatto quel monopolio de facto sulla diretta degli eventi sportivi che mai ci si era immaginati di poter mettere in discussione. L’ascesa di Fininvest, completata poi con l’acquisizione nel giro di pochi anni di Retequattro e Italia 1, cominciò sul terreno più congeniale a Berlusconi, quello dello sport, contenuto ancora lontano dall’essere oggetto premium come oggi, ma già in grado di provocare smottamenti nel sistema televisivo.

La seconda sfida lanciata alla Rai avviene nella serialità o, meglio, nella collocazione di palinsesto di una serie tv americana. Con Dallas, la Rai aveva pure tracciato una strada, ma effettuò una strana scelta di programmazione che non diede i frutti sperati e che sacrificò il potenziale della serie. Berlusconi ne approfittò, acquistando i diritti del prodotto e costruendoci intorno un’offerta coerente, giocata sulla continuità e sull’appuntamento, creando fidelizzazione e ritualità.

I volti

Berlusconi è diventato, a tutti gli effetti, un competitor reale per il servizio pubblico, al punto che nel giro di pochi anni è riuscito a strappare al servizio pubblico tutti i conduttori storici, da Mike Bongiorno a Maurizio Costanzo, da Corrado a Raimondo Vianello e Sandra Mondaini, consapevole che la tv è soprattutto volti, famigliarità, mediazione.

Tutte figure che diventeranno cruciali per instaurare un rapporto di fiducia con il pubblico, dal lancio di nuovi contenuti. Sarà Mike Bongiorno a rassicurare lo spaesato pubblico di Canale 5 su quella serie così particolare come I segreti di Twin Peaks («non l’ho vista, ma i miei amici americani mi dicono che è meglio di Dallas…») e saranno sempre questi volti così amati e popolari a “orientare” la fase della discesa in campo politico del 1994, che non risparmia anche i contenuti pomeridiani per i pre-adolescenti come Non è la Rai («il Padreterno tiene per Berlusconi, Satana tiene per Occhetto…»), e il referendum del 1995 sulle interruzioni pubblicitarie nei film trasmessi in tv.

In un periodo – almeno tutti gli anni Ottanta fino alla legge Mammì del 1990 che ratifica il duopolio – in cui alle tv private è sbarrata la strada della copertura nazionale, Berlusconi s’inventa il celebre sistema della “cassettizzazione”. Acquisiti diversi network sparsi in tutta Italia, comincia a trasmettere lo stesso prodotto a distanza ravvicinata su diversi canali regionali. La scelta è dettata da ragioni pubblicitarie (i grandi investitori cominciavano a mal tollerare di essere inseriti insieme alla piccola attività commerciale locale), l’effetto è quello di una programmazione nazionale a tutti gli effetti. Ne deriva un grosso caso giuridico, con i pretori di Torino, Roma e Pescara che oscurano i network incriminati, privando milioni di spettatori di un’abitudine ormai consolidata.

Interviene l’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi che con i celebri “decreti Berlusconi” ripristina i canali televisivi bloccati collocando i socialisti in un ruolo di apertura alle istanze della tv commerciale, in una geografia politico-televisiva che vedeva soprattutto sinistra democristiana e comunisti arroccati sul versante opposto.

Assetti aziendali

Il fiuto televisivo di Berlusconi si è manifestato non solo nelle strategie editoriali, ma anche negli assetti aziendali. La creazione di case di produzione e distribuzione “interne” e direttamente collegate ha garantito solidità e continuità di prodotto, codificando generi, stili, immaginari, dalla fiction all’informazione, dalla comicità al reality; il gusto esterofilo con l’invasione di film e serie americani si è sempre accompagnato a un ammiccamento costante alle pulsioni nazional-popolari, replicando in chiave nuova e alternativa i modelli esistenti, mentre l’apertura a mercati internazionali (su tutti, il caso di Mediaset España) ha tracciato sentieri all’epoca ancora inesplorati per gli editori italiani.

È sempre in quella convention di TeleMilano 58 che si ritrova il senso della televisione per Berlusconi: «Una televisione deve diventare con calma; è un bambino piccolo che avrà tutte le nostre cure per diventare grande nel modo migliore».

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