Tutta la spensieratezza di un’estate italiana. Lontano, almeno apparentemente, dalla complessità narrativa di altri film Pixar, Luca è un lungometraggio semplice, lineare, persino scontato in alcuni passaggi della trama, eppure per nulla banale, capace di estrarre purezza, nostalgia ed emozione a ogni frammento. Soprattutto, è la cartolina di un’Italia idealizzata, tanto imperfetta quanto travolgente nella sua bellezza.

Ambientato nell’immaginaria Portorosso, una sorta di crasi tra Portovenere e Monterosso, Luca è un film d’animazione atipico per l’universo Pixar, non solo per la location (è la prima volta che una porzione del nostro paese diventa protagonista assoluta di una storia), ma anche per le relazioni e i messaggi  che contiene.

Il regista ligure Enrico Casarosa ha voluto omaggiare la sua terra ricreando un angolo di Cinque Terre in cui dettagli, ricordi e stereotipi si fondono in un quadro fatto di pennellate e citazioni di forte impatto visivo.

La vita in superficie

Protagonista della storia è Luca Paguro, un mostro marino mezzo umano e mezzo pesce che vive nelle acque del mar Ligure insieme ai genitori e alla nonna. Attratto dalla “vita in superficie”, contro il divieto dei genitori di varcare quella soglia si lascia sedurre dalle proposte di Alberto Scorfano, un suo simile e coetaneo che circola solitario e che esce abitualmente dal mare per provare la vita sulla terraferma. E quando Luca finalmente accetta, scopre che anche lui può assumere sembianze umane, con il rischio però di tornare a quelle marine se entra a contatto con l’acqua.

La scoperta della città, o meglio del paesino di mare con i suoi riti, ritmi, sapori e profumi è per Luca anche una scoperta di sé, un’oscillazione tra rifiuto e accettazione della propria natura, il sogno di una contaminazione possibile tra mondi inconciliabili. In superficie, Luca e Alberto scoprono l’attrazione per la libertà, emblematizzata dalla Vespa, omaggio al made in Italy e a una stagione irripetibile; siamo negli anni Cinquanta e lo si evince dai manifesti che richiamano Fellini o le Vacanze romane di Gregory Peck e Audrey Hepburn, ma potremmo essere in una dimensione senza tempo, un mondo possibile fatto di sogni e insidie dietro l’angolo.

I due amici decidono di partecipare a un’insolita gara di triathlon del paese per racimolare il gruzzolo necessario all’acquisto dell’agognato mezzo su due ruote. Sulla loro strada, il classico antagonista, Ercole Visconti, un “bullo” locale che va fortissimo in salita con la bicicletta (omaggio a Ercole Baldini?), e il classico “aiutante”, una ragazzina che fa Giulia di nome e Marcovaldo di cognome, in ossequio a Calvino che più volte sembra fare capolino nel film, dalle insegne della piazza alla scoperta di una sorta di “città invisibile” che, in fondo, tra gli abissi e la superficie sta tutta nell’immaginazione e nel cuore di Luca.

Nessuno conosce la vera natura dei due amici, che faticheranno non poco per tenerla nascosta, scoprendo infine la bellezza del palesarsi per quello che si è. Giulia “adotta”, ignara, i due mostri marini e li ospita a casa insieme al padre, un burbero pescatore senza un braccio che cucina ovviamente trenette al pesto. Luca si lascia sedurre dai libri di scuola di Giulia, dalla conoscenza dell’universo, riuscita metafora dell’ambizione di voler uscire dagli abissi del mare e conoscere il mondo, il suo infinito e le sue contraddizioni.

Film universale

C’è chi ha letto in Luca un messaggio sociale profondo, quello di una vicinanza alle ragioni della comunità Lgbt, ma anche all’inclusione e all’accettazione di ogni diversità. Può essere che sia così, e di certo il richiamo di quel legame estivo alla Chiamami col tuo nome (il romanzo di Andrè Aciman, in particolare, è a sua volta ambientato in Liguria) non sfugge.

Eppure, al fondo, Luca somiglia più a un grande romanzo di formazione, a una tipica narrazione coming-of-age in cui diventare adulti scoprendo sé stessi e gli altri, imparando ad accettare limiti ed errori. E a superare le paure e i freni imposti dal modello sociale: quando Luca si ritrova sulla terraferma per la prima volta, è proprio l’amico Alberto a convincerlo a buttarsi, a non tornare indietro, ad abbandonare quel “Bruno” (una sorta di nemico interiore) che lo blocca. «Silenzio, Bruno», urlato a squarciagola da Luca, diventa un manifesto di trasgressione consapevole, il claim di un definitivo affrancamento dai vincoli e dalle norme.

Ma Luca è anche un veicolo straordinario di promozione del Belpaese, dove la naturale stereotipizzazione da film americano viene edulcorata da uno sguardo locale che è quello del regista, capace di mediare con i propri ricordi d’infanzia e di restituire solidità e veridicità a un impianto scenico a rischio di caricatura.

Non è la prima volta che la Pixar inserisce l’Italia nelle sue storie; in Cars 2, per esempio, a un certo punto i protagonisti si recano a Portocorsa, una località che ha in sé i tratti della riviera ligure, della costiera amalfitana, delle sagre del centro Italia e persino le strade strette di Montecarlo, in un miscuglio volutamente sfilacciato e senza radicamento. Qui, al contrario, la Liguria fa la Liguria e il risultato è davvero sorprendente, al netto delle inevitabili semplificazioni. Le musiche, inoltre, raccontano un universo che spazia su più decenni, dal Gianni Morandi degli esordi, quello di Andavo a cento all’ora e Fatti mandare dalla mamma a Il gatto e la volpe di Bennato fino alla Città vuota di Mina, sullo struggente addio di Luca che decide di abbandonare la famiglia e Alberto per seguire Giulia a Genova e iniziare la scuola, scegliendo così finalmente la propria strada.

Luca è un film sull’amicizia e sull’avventura, universale nella sua semplicità. Chi non ha mai avuto un amico come Alberto (curiosa la coincidenza nominale con l’amico del “Che” ne I diari della motocicletta…)? Chi non ha mai trascorso almeno un’estate così, tra giochi, sogni, paure e rimpianti? Il film di Casarosa ci riporta a quell’età in cui tutto è possibile, in cui ogni pagina della nostra vita sembra ancora tutta da scrivere, al “ricordo di un’estate”, parafrasando lo Stand by me di Rob Reiner (su soggetto di Stephen King), che ci ha formati e fatti crescere.

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