In questa fine di gennaio fa un freddo becco e viene subito buio, per cui tocca spesso giocare in casa e non è la stessa cosa. Oggi è andata così, e a un certo punto ho lasciato gli altri tre da Mauri (che sua mamma è un martello e fa due palle quadre e non toccate lì e state buoni là e perché non giocate a Monopoli?), sono rientrato e mi sono buttato sul letto con il nuovo “Comandante Mark”, che Michele Strogoff mi tocca leggerlo per la scuola e adesso anche no.

A cena Giuanin ha qualche nuvola sulla testa e Marcello se ne sta al solito sulle sue, mentre l’Ermelina e la Rina, mai troppa voglia di musi, strepitano e ciabattano avanti e indietro dalla cucina. Poi però il telegiornale le zittisce e si sentono solo le forchette toccare i fondi dei piatti. Il giornalista sta parlando di un bambino in Versilia. Il nome che ripete è Ermanno Lavorini.

È stato visto per l’ultima volta ieri, subito dopo pranzo, quando è uscito con la bici. Poi è arrivata una telefonata, alle cinque e quaranta di pomeriggio. Faceva già buio.

«Chi parla?».
«Lavorini».
«Intendo personalmente».
«La figlia».
«Suo fratello non rientra a casa. Anzi, rientra dopo cena».
«Come dopo cena? Aspetti che chiamo mio padre».
«Non si muova. Dica a suo padre di preparare quindici milioni e di non avvertire la polizia».

Rapitori

Il dialogo al telefono riportato dalla sorella di Ermanno posso ripeterlo a memoria. È la prima volta che un bambino viene rapito. In questi giorni, alle otto e mezza di sera, la luce del televisore sfarfalla in ogni casa d’Italia le stesse immagini.

I Lavorini a Viareggio hanno un negozio di telerie, quasi come quello dei miei, ed Ermanno, i suoi genitori e sua sorella ci sembrano ancora di più parenti nostri.

Tra amici ne parliamo poco, ma se un signore ci passa vicino mentre giochiamo, c’è sempre qualcuno di noi che allarga gli occhi e stringe le labbra finché non diventano bianche. Poi fa finta di niente ma intanto tutti l’abbiamo visto farsela sotto. Se là fuori ci sono adulti che possono, senza volere, togliere la vita a un bambino mentre insegue una rana, ora sappiamo essercene anche altri capaci di rapire, forse di uccidere, uno di noi. Uno di noi che, intanto, proprio non riescono a trovare.

Come se non bastasse, questa storia sembra nasconderne altre di cui non ci vogliono far sapere, qualcosa di intricato e incomprensibile. Quando chiedo spiegazioni a mio padre, ogni volta mi sento dire: «Lascia stare».

Dormo poco e male, ogni rumore nella mia cameretta mi fa immaginare il peggio. Qualche volta striscio nella stanza dei miei e sottovoce prego la Rina di farmi un po’ di posto nel suo lato del letto, ma piano, che Giovanni non senta o s’infuria.

Quando in un altro telegiornale annunciano il ritrovamento di Ermanno, dicono che in realtà è stato rinvenuto il suo corpo. Su una spiaggia, in mezzo a sterpaglie e rifiuti. Pensano sia sempre stato lì da quella telefonata a fine gennaio.

Quaranta giorni fa.

La fuga

Ho appena salutato gli amici, ci sparpagliamo tutti come in ogni altra uscita da scuola. L’altroieri ho fatto nove anni ed è stato bello perché mi hanno regalato il proiettore Festacolor che così adesso il Politeama me lo faccio in casa (vabbè, non c’è l’audio e sono solo sequenze di diapositive da far sfilare a mano, ma la notte scorsa l’ho passata in piedi e gli ho bruciato le batterie).

I miei sapevano che lo puntavo da tempo, mi sa che me l’hanno regalato stavolta perché pensi un po’ meno a Viareggio. La primavera sembra in anticipo e le giornate si sono già un po’ allungate; faccio i conti con quanto pomeriggio potrò avere per me – ci hanno dato pochi compiti – e decido di festeggiare avviandomi verso la drogheria per un laccio di liquirizia.

Dopo pochi passi, però, una mano mi stringe una spalla e una voce

nasale mi chiede: «Come stai?».

Mi giro e trovo la faccia di questo signore troppo vicina alla mia, baffi alla messicana, sopracciglia a cespuglio e il fiato che gli puzza come il pattume di una settimana. È lo stesso tipo di scossa di quando ho messo la lingua sulla punta di una pila, ma cento volte più forte. Schizzo a razzo

sotto i portici. Lo zaino mi rimbalza sulla schiena, io stesso rimbalzo su un altro signore, un bestione che me ne urla dietro un bel po’.

Sbatto contro sacchetti della spesa, manubri, sedie di bar, borsette, gambe; mi infilo in un paio di varchi fra ragazzi che parlano fra loro e nella coda fuori dalla farmacia; le imprecazioni alle mie spalle diventano lontane in un attimo.

Non mi giro neanche se mi pagano ma spero che qualcuno là dietro faccia l’eroe, sgambetti il rapitore, gli salga in piedi sulla schiena e lo tenga lì, a terra, come la preda abbattuta in un safari. Io intanto stabilisco il nuovo record di percorrenza tra via Roma e via Carlo Quinto e mi lancio senza più fiato sulla porta del negozio dei miei, spalancandola sulla schiena di una cliente che esplode nel verso del tacchino e poi, dolorante, viene fatta sedere, un bicchiere d’acqua e un milione di scuse.

Giuanin mi guarda con il suo: “Io e te ne parliamo più tardi”.

Quando viene fuori che il signore dal fiato fetido è il padre di un mio compagno di classe e mi voleva solo salutare, il mio, di padre, vuole effettivamente parlarne con me.

Formazione delle nuvole di Tullio Pericoli, 1997, © Tullio Pericoli

Il calcio

Forse è proprio per questo mio periodo difficile che Giuanin e la Rina decidono di iscrivermi nei Pulcini della Correggese, che, a quanto pare, “lo sport fa bene”. Fino a oggi ho giocato a calcio nei cortili, in piazzetta, lungo i corridoi, per strada, ai giardinetti, nei prati e su qualsiasi fondo (ghiaia, erba medica, asfalto, acciottolato, sabbia), ma qui è come passare da “Tiramolla” a “Diabolik”. Una vera tenuta,

vere scarpette, un campo che non finisce più e palloni che finalmente non sono di gomma. Palloni non più così leggeri da cambiare direzione al primo colpo di vento o al primo tiro che viene bene. Questi a colpirli di testa si prende il rinculo. Palloni per grandi.

Ho il mio angolo nello spogliatoio e il mio numero sulla maglietta. Anche se non sono mancino mi hanno messo all’ala sinistra e mi hanno dato l’undici proprio come Mario Corso. Tengo giù i calzettoni come lui. Se Marco viene a vedere una partita sarà contento.

Dallo spogliatoio si sente il cigolio della carriola del gesso con cui il custode tira, sempre un po’ storte, le righe entro cui dobbiamo stare. L’odore acre e pungente dell’olio di canfora sembra di averlo sempre addosso a segnalare al mondo che siamo “calciatori”, e io calciatore mi sento già dal venerdì, quando, subito dopo la “Hit Parade” di Lelio Luttazzi, pedalo con il cuore in gola a vedere la bacheca delle convocazioni.

A ogni ingresso in campo, fatico a convincermi dell’esistenza di un fondo così spianato, con un’erba che è come la moquette pelosa in certe case di ricchi. Le porte sono davvero regolamentari e la rete ferma il pallone e c’è la recinzione appena un metro oltre il fallo laterale e oltre quella recinzione le tribunette e su quelle tribunette sempre qualcuno a guardarci. Il calcio. Sì, il calcio.

Papà fa a botte

«Ma tu per che squadra tieni, papà?».

Con le mani sul volante e lo sguardo sulla strada risponde: «Non tengo per nessuna squadra. Tengo solo i conigli», e poi ride di quella battuta. Deve averla sentita da un cliente contadino e da allora se l’è giocata spesso sghignazzando ogni volta.

Sono sicuro che vorrebbe vedermi ridere di più alle sue uscite ma non c’è niente da fare: io e lui siamo proprio diversi. Ci viene difficile parlarci. Spesso, come oggi, mi porta con sé per le sue vendite porta a porta, e in ogni bar o distributore in cui ci fermiamo deve provare ad attaccare bottone con chiunque gli capiti a tiro.

A voce sempre troppo alta declama una barzelletta o una freddura del suo repertorio. Quando vedo che chi ascolta non reagisce, o se reagisce è per commiserarlo, mi dispiace sempre per lui. E faccio male, perché a Giuanin non gli frega proprio niente, e subito dopo, di fronte al cliente successivo, torna a tirare fuori il suo show.

A sua volta lui si dispiace per me, lo so, per la mia timidezza. Che tutte le mie scorribande da via Pál non riescono a nascondergliela. Mi vorrebbe più sciolto. Meno legato.

L’ho visto fare a botte un paio di volte, mio padre. La prima non è neanche stata una rissa ma un lampo. Ha mollato un cazzotto in faccia a uno più grosso di lui, quello è rimasto a terra qualche secondo e quando si è rialzato ha preferito non reagire e andarsene.

«Cosa ti aveva fatto, papà?».

«Lo so io».

Nella seconda, invece, Giuanin ne ha prese un bel po’. In un impulso da Lancillotto si è messo contro un paio di ragazzi,

vent’anni o giù di lì, che hanno fatto una battuta stupida sulla Rina. A me non è sembrata una cosa tanto cattiva ma lui non l’ha vista così, e siccome dice sempre “chi picchia per primo picchia due volte”, per primo ha picchiato.

Ma quelli erano in due.

Quello che c’è da fare

Lo fissavo più tardi, mio papà, di spalle, seduto sul letto, con la mamma a massaggiargli la bocca dello stomaco e lui a tentare di respirare a fondo. Sporgevo appena la testa per non farmi vedere, e mentre lo guardavo pensavo a chissà quante volte gli era già capitato di pestare e venire pestato in momenti più duri, per motivi più drammatici. Le volte in cui aveva visto ciò che aveva visto e difeso ciò che andava difeso. Le volte in cui si era convinto a credere solo in ciò che toccava con mano.

Se parliamo di credere, i miei non credono in Dio, e di conseguenza il Natale resta sempre fuori da casa nostra. La Rina e l’Ermelina, in combutta, sono riuscite dopo infinite insistenze a ottenere il permesso per un alberello.

È di plastica, alto poco più di un metro, e “non deve” tenere i pacchi sotto di sé perché “i regali si fanno solo per Santa Lucia o la Befana”.

I miei sono comunisti. Io però proprio non so cosa voglia dire e un giorno faccio a Giovanni una domanda che era meglio di no: «Papà, ma noi siamo comunisti perché viviamo in un comune?».

Non l’ho mai fatto ridere così tanto.

Una cosa comunque l’ho capita: Giuanin e la Rina mai e poi mai vivrebbero come in Russia.

Però, mi dicono, qui da noi quella parola significa che ci dobbiamo aiutare tutti, specialmente i più deboli. Un giorno vedo lei cercare di ingoiare le lacrime e lui stringere il tovagliolo in un pugno mentre il telegiornale racconta di una bomba fatta scoppiare in una piazza che si chiama piazza Fontana.

Chissà cosa si portano dentro mentre, come ripete sempre Giuanin, “as fa col c’a ghe da fer”. E loro lo fanno, quello che c’è da fare, lo fanno sempre.

Quella frase è la barra che dirige la loro barca, ed è una barra che tengono con due dita, fischiettando. Sarà perché questi, anche se ormai alla fine, sono pur sempre gli anni Sessanta.

Musica

E le canzoni fioccano.n Le sento per radio dall’unico canale accessibile, la Rai. Le vedo cantare in bianco e nero a “Canzonissima”, “Sanremo”, il “Cantagiro” e “Un disco per l’estate”. Continuo a pattugliare il juke-box della gelateria dove le mettono su i ragazzi più grandi. Beatles e Stones, Beatles e Celentano, Beatles e Dylan, Beatles e l’Equipe 84, Beatles e poi, dài, Let It Be, lascia che sia.

Ma ora, in casa, è finalmente arrivato quel coso di plastica arancione che avevano tutti tranne noi: il mangiadischi. Ha l’aspetto di un giocattolo ma con lui si fa molto sul serio: adesso posso decidere io quando ascoltare o riascoltare la musica senza dovere aspettare i capricci della radio o della tv. Posso sentirlo gracchiare i quarantacinque giri dei miei: Il mondo, Se telefonando, Occhi di ragazza, Insieme a te non ci sto più. Posso farlo quando voglio, per il numero di volte che voglio.

La musica ce l’ho finalmente in mano. Posso toccarla. I dischi mi restano attaccati alle dita.

Li metto su io per te, Rina, quelli che fanno bene a mio fratello. Tu pensa solo a farlo crescere bene dentro di te, alla musica penso io. Mio fratello. Già. Nella tua pancia. Pronto a venire al mondo dieci anni dopo quella volta in cui hai rischiato la pelle per me.


Questo brano è tratto da Una storia, il libro di Luciano Ligabue edito da Mondadori, disponibile dal 3 maggio

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