Un tempo ci si interrogava: come può “la Signora”, come è chiamata da dipendenti ed estimatori, creare un impero del Bello sopra un codice estetico anche di bruttezza notevole? Ma erano altri anni: l’ugly chic era di là da venire, la tuta impresentabile, il calzino col sandalo ancora vietati dalla Convenzione di Ginevra.

Oggi la Signora vive tranquilla una sua fase definitiva di acclamazione concettuale, establishment patrimoniale-dinastico, consacrazione intellettuale. Oggi la rinascita di Milano passa anche dalla Fondazione Prada, che è diventato anche un quartiere: «Abito in Fondazione Prada» ci si sente rispondere, da chi ha preso casa nel quadrante sud, scavallato lo scalo ferroviario di corso Lodi; scalo ferroviario che diventerà una sorta di “Pradaland” olimpico con le competizioni del 2026.

E c’è chi come il memista di architettura Alvar Aaltissimo immagina con ironia ma non troppo una “Pradate” a sud, o anche “SoPra”, South of Prada, con acronimo di cui i milanesi sono notoriamente ghiotti. E Dal Prado a Prada era del resto il sottotitolo di un saggio di Graeme Evans sull’International Journal of Urban and Regional Research, pubblicazione di urbanistica in cui si teorizza il passaggio da una città “classica” a una città-evento, città-festival che conta sul museo d’arte contemporanea per darsi un tocco internazionale e cosmopolita.

Dare il proprio nome a una città o a una parte di essa è un destino che tocca a poche dinastie: certo, c’erano le company town dei Crespi a Crespi d’Adda, o la Zingonia degli Zingone. Ma erano business piuttosto brutali, nessuna casa di moda c’è mai riuscita. Non c’è a Roma una “Fendopoli” o a Parigi una “Ville Dior”. Ma andiamo con ordine.

Le origini di Miuccia

AP Photo/Antonio Calanni

L’ascesa di Prada si accompagna alla riservatezza più totale.

«Non ne so niente», «Non saprei che dire, non frequenta nessuno», «Sì, son stata a casa sua, ma era tantiiissimi anni fa, non mi ricordo niente», «È off the record, vero?». Queste le risposte che si ebbero quando si scrisse un profilo su Miuccia. Lei dà pochissime interviste, si sottrae, non ama apparire, odia soprattutto la tv. Così uno è costretto a immaginare.

Il tema, cioè essere Miuccia, cioè Miuccia Bianchi Prada, nata nel 1948, massima icona di immaginario non solo sartoriale, è naturalmente arduo. Come si può essere icona globale, seppur riflessiva, con mocassino e calzino bianco e venendo oltretutto non da infanzie dure al sud ma dalla borghesia affluente del nord, e pure dal Pci milanese. Sarà la prima e unica stilista del Pd, e soprattutto col PhD?

Le origini sono note: il negozio del nonno Mario Prada, aperto nel ’13 in Galleria col fratello Martino. Più in là col casato non si va, forse antenati spagnoleschi dunque manzoniani, ma c’è anche un conte Prada speculatore nel Roma di Émile Zola. Le origini certe danno però questo negozio, negozio non di pelletteria come si vorrebbe ma piuttosto di sfizi coloniali, di bauli e nécessaire dannunziani, di pelle di elefante, tricheco, serpente e alligatore; perché il sciur Mario non è pellettiere, è personaggio curioso, già militare di Marina, e il suo core business diventa presto il baule da piroscafo, baule dei più eccentrici, con inserti in argento e cristallo, e piace subito molto, tanto che sei anni dopo diventa già fornitore della Real Casa (e intanto, nel negozio in Galleria, ecco questo gran piroscafo affrescato, affresco teatrale un po’ salgariano, dello scenografo della Scala Nicola Benois). Anche partigiano, il Mario Prada, e infatti in queste borse, non si sa se di tricheco o elefante, porta su delle carte a Londra a don Sturzo, mentre il fratello Martino è nell’Azione cattolica e lascerà i pellami per fare politica attiva nel Partito popolare.

I Prada sartoriali derivano poi dal Mario, e il Mario ha due figlie, una Luisa e una Nanda; la Luisa sposa un Bianchi e produce una Maria Bianchi, e questa Maria Bianchi è Miuccia Prada. “Miuccia” è un diminutivo infatti di quelli a cui solo la scienza milanese del nomignolo può arrivare. Il cognome Prada invece arriverà solo negli anni Ottanta, quando la Nanda, che è rimasta signorina e zia molto amata dai ragazzi Bianchi, li adotterà tutti per dare una continuità al casato e al pellame. Maria-Miuccia sta in mezzo a un Alberto e a una Marina.

Poi ci sono gli studi della Maria-Miuccia al Berchet, con don Giussani professore di religione, poi la militanza nel Pci, sezione Porta Romana, circolo “Carlo Marx”. Circolo che nasce già griffato perché ad aprirlo è Giò Pomodoro nel 1972, e presto frequentato da Eva Cantarella, Paola Capriolo, Salvatore Veca, Barbara Pollastrini. E poi naturalmente dalla Miuccia-Maria, che «era molto attiva, molto atletica. Animava il circolo dell’Udi, l’Unione donne italiane. Partecipava a tutte le attività che si facevano allora, le danze, la ginnastica» mi racconta Chicco Testa, che di quel circolo è stato presidente. E a trovarle oggi, le sciure che han fatto autocoscienza con “la Miuccia”, che scoop; ma forse sono state decimate o raccolte in una località segreta.

«Miuccia veniva sempre con questi Saint Laurent che comprava ai saldi, e il lunedì non avendo orari d’ufficio veniva a lavare le pentole al nostro festivalino dell’Unità che si organizzava nei giardini di Porta Romana» dice sempre l’ex deputato Pci. Il Saint Laurent in sezione è un classico della narrazione pradesca di Miuccia-Maria. «A Milano si era del movimento studentesco, non del Pci» dice però un’altra signora naturalmente anonima dei bastioni, sostenendo insomma che quella pradesca era una sinistra all’acqua di rose, e del resto il prozio Martino era un democristiano in purezza, e insomma forse la storia dei Bianchi-Prada è una autobiografia della sinistra italiana? Il centrosinistra come proseguimento del baule da piroscafo con altri mezzi?

Un bruto organizzatore

AP Photo/Luca Bruno

Come in ogni morfologia della fiaba stilistica, c’è sempre il momento primario in cui l’Anima Sensibile del Creativo incontra Il Bruto Organizzatore. Ecco Valentino con Giancarlo Giammetti, ecco Saint Laurent con Pierre Bergé, ecco Armani con Sergio Galeotti: nella fattispecie, qui, Maria-Miuccia incontra Patrizio Bertelli. Aggettivi più usati: roccioso, vulcanico, ruvido, maniacale, ossessivo. Tutti ne sono terrorizzati, tranne lei, che lo chiama per cognome (“il Bertelli”, con l’articolo, molto lombardamente; memorabile la scena in cui gli strappa di mano una bottiglia di champagne da frantumare contro lo scafo della nuova Luna Rossa).

Sul Bertelli girano leggende nere: i fari delle macchine parcheggiate male sotto gli uffici Prada spaccati con mazze da golf. Quella dello specchio ingrassante, un classico della Casa, confermata anche dal protagonista: uno specchio di una nuova boutique del marchio Miu Miu frantumato perché «ingrassa le clienti». («Gli piace avere questa fama» ha detto Maria-Miuccia al «Wall Street Journal», «altrimenti si comporterebbe in maniera diversa.»)

Infine la storia della borsa, non la Borsa maiuscola di Hong Kong dove Prada si è quotata, ma quella minuscola, proprio una borsa o borsone (pare non fosse tanto piccola, forse una tote bag, come dicono gli esperti), e questa borsa che non soddisfaceva requisiti bertelliani di qualità (lui esamina cerniere e cuciture e tagli del pellame) pare sia volata da una finestra, e di là finita di sotto in testa a una sciura ugualmente vulcanica, e insensibile alle lusinghe della Moda, che invece che scappare, dopo le tumefazioni, con il modello, forse a tiratura limitata, è andata in questura e ha fatto denuncia.

La fiaba di Maria-Miuccia vorrebbe che col Bruto si incontrino al Mipel, la fiera della pelletteria di Milano, nel ’77. Con Maria-Miuccia che finalmente sgama in uno stand un produttore toscano di pelli che le copia le borse da anni, si trovano vicendevolmente odiosi, e dunque è l’inizio perfetto di una grande storia d’amore. In realtà il Bruto viene sì da Arezzo, ma è nipote e bisnipote di avvocati, ha una nonna contessa, e si è messo a fare dei cinturoni da jeans con marchio Sir Robert non per bisogno ma per spirito imprenditoriale. Il Bruto aveva fondato la sua startup, “I Pellettieri d’Italia”, a venticinque anni ha già sessanta operai.

È orfano di padre, la mamma è maestra, è mancino. Ha la passione per la satira, apre testatine in cui sfotte i personaggi locali, si chiamano Il pungiglione, Il bombarda,«Pettegolaglia. Vota Psiup. «Controlla tutto, se avesse un filo di tette farebbe anche la modella» mi dice una sciura milanese per far la spiritosa e citare Biagi che parlava di Berlusconi (spiritosa sì, ma «Per carità non mi citi», terrorizzata).

Il Bruto convince Maria-Miuccia a fare molte cose: le scarpe (1979), le collezioni donna (1988) e quella uomo (1993), forse anche a sposarsi; in municipio ad Arezzo, il giorno di San Valentino 1987, dopo otto anni di convivenza passati per lo più in un conventone-factory in Toscana. Viaggio di nozze a San Pietroburgo, praticamente chiusi all’Ermitage: i due sono collezionisti veri, non stilisti frufru che cercano nell’arte contemporanea un modo di legittimazione culturale, questo anche fa la differenza (di lì poi la fantasmagorica Fondazione).

Gli eredi

AP Photo/Luca Bruno

“Il Bertelli” la chiama “la Miuccia”. «Litigano come animali» secondo Germano Celant. Lui cucina, lei no. Generano due figli. Per qualche ragione misteriosa della genetica delle classi affluenti sfuggita a Veblen e Darwin, producono rampolli esteticamente avvantaggiati. L’esposizione alle vitamine e ai denari, alla ginnastica, ai dentisti, allo sport – lo si è sempre sospettato – influisce sulla materia in modo non ancora sufficientemente chiaro, ma i Bertelli di ultima generazione, forse un giorno Bertelli-Prada e poi solo e definitivamente Prada, sono bellocci; si chiamano Lorenzo (trentaquattro anni, laurea in Filosofia con Massimo Cacciari, l’abate Parini delle alte borghesie milanesi); rallysta, ogni tanto fa degli incidenti, è nato lo stesso giorno di sua madre, il 10 maggio.

È l’erede designato. Già chief marketing officer – Cmo – dell’azienda, ne sarà l’acronimo più ambito, Ceo. Il Bertelli se l’è lasciato sfuggire qualche mese fa al Prada Capital Day. Ma non subito. «In due-tre anni.» Poi c’è Giulio, trent’anni, studi di Architettura (altra passione materna), segue invece quella paterna per la vela. I due come sarà facile capire sono ambitissimi, anche perché mammà gli ha lasciato tutta la proprietà (50,5 per cento a Lorenzo e 49,5 per cento a Giulio, lei s’è tenuta l’usufrutto). Tra le liaison di Giulio, l’angelicata Palma Bucarelli, figlia di Angelo, nipote dell’omonima Signora dell’arte romana.

«Io sono una santa. Ci sono più cose belle che brutte nel nostro rapporto. Non mi annoio mai e ci rispettiamo» ha detto “la Miuccia”. Il Bertelli: «Io sono più istintivo. Il nostro rapporto è molto solido». Se si è molto fortunati, nella palazzina di Porta Romana che è rimasta la casa di sempre, e se è particolarmente di buon umore, lei può gorgheggiare qualche aria della Tosca. Nella casa, disegnata da uno dei padri della grafica milanese, Italo Lupi, artefice anche del marchio Miu Miu e del marchio del Poldi Pezzoli con le dame del Pollaiolo “simil-Maria Elena Boschi di profilo”, c’è una grande veranda che dà su un cortile interno; molti libri d’arte; addirittura un angolo tv (la tv la guardano, soprattutto per le partite del Milan, di cui la Signora è grande tifosa, magari con Cacciari). Ma non ci vanno assolutamente mai, per nessuna ragione. La Signora poi la odia, il gusto per il trash non lo capisce e lo disprezza.

Poi c’è una cucina tutta d’acciaio dove Bertelli si esprime. La casa è stata fotografata su Abitare, rigorosamente senza i padroni, e senza alcuna dicitura che la ricollegasse a loro. A volte in questa casa si possono trovare le migliori società civili dell’Area c: intorno a un tavolo tondo da otto, può capitare di trovare Lina Sotis, amica di famiglia, insieme a Michele Salvati, a Eva Cantarella.

Al povero Germano Celant, alla Natalia Aspesi idolatrata; e naturalmente Francesco Vezzoli, il Rasputin di Miuccia (consigliere ascoltatissimo, artista esposto e curatore di mostre già celebri nella sua Fondazione Prada, i due viaggiano insieme, in una dimensione super international o super local, al Met Gala a New York, o a Riccione per vedere il Tempio Malatestiano, o in centri molto minori per vedere collezioni d’arte sconosciute, tipo Ingrid Bergman e George Saunders in Viaggio in Italia).

Talvolta qualcuno li riconosce, se l’elicottero grigio militare codice I-DPRA scende in un campo sportivo (molto agnellescamente), ma più spesso no, ed è così che la Signora si diverte, fuggendo, tipo papa dal Vaticano, magari inforcando una bici a noleggio per vedere viale Ceccherini e mangiare una vera piadina, o andare in un baraccio a vedere l’amato Milan, nell’indifferenza dei presenti che non sanno che si nasconde, sotto il cappello, l’ultima Signora d’Italia.

Rendere Milano cool 

LaPresse/ Matteo Corner

La coppia Prada-Bertelli è moderna, si fa molto i fatti suoi, ma poi è molto unita; e legata ad alcuni riti identitari come il risotto o il panettone di Marchesi, pasticceria rilevata qualche anno fa. Ma “la Miuccia” ama anche i panini del bar Quadronno, vicino casa, o di Sissi, pasticceria famosa per dei croissant che scuotono i creativi milanesi.

Pare che intorno al tavolo da otto sia sorta e tramontata l’idea di Maria-Miuccia sindaco. Si era nel 2006 e bisognava rispondere alla candidatura di Letizia Moratti, e i commensali entusiasti la incitavano, e lei che ha un animo politico oltre che poetico aveva detto finalmente sì. Salvo che poi Renato Mannheimer, amico allora molto in voga, aveva fatto un sondaggio riservatissimo da cui risultava che il brand di culto globale non attecchiva al Giambellino né a Molino Dorino quanto il nome milanesissimo e calcistico della sciura Moratti. Pare che Maria-Miuccia fosse pronta a gettarsi comunque nell’agone, ma il bruto realista Bertelli non fosse disposto a subire una sconfitta, oltre che a spendere un sacco di soldi (poi la sinistra candidò il prefetto Bruno Ferrante e perse lo stesso, senza brand globali né locali).

Oggi pensare Miuccia sindaco sembra una distopia; e lei su Milano da una parte regna senza governare. Dall’altra ha il mero e misto imperio su una zona della città, appunto “Fondazione Prada”, di cui è califfa e sceicca. La Fondazione è l’edificio che più ha contribuito a cambiare il volto di Milano dopo i deprimenti anni Novanta e Duemila. L’apertura, nel 2015, in coincidenza con l’Expo, ha riportato la città nel novero della coolness globale.

Diciannovemila metri quadrati che riassumono la visione pradesca: affidata al più severo archistar globale, Rem Koolhaas, edificatore dell’operazione cultural-architettonica pradesca, archistar che non deve chiedere mai, sempre in impermeabile di pelle (Prada), che sembra un po’ l’ispettore Derrick, che è stato giornalista e sceneggiatore. Lei ama anche Herzog e De Meuron. Detesta invece Tadao Andō (che invece ha fatto l’Armani/Silos).

LaPresse/Piero Cruciatti

Comunque, alla Fondazione: un piano chiaro, né mammozzone di archistar (ormai canone di tutti gli stilisti appena un po’ arrivati) né archeologia industriale, roba tutta già passata di moda in cui però ancora sguazzano i concorrenti, come nelle passerelle.

Dunque, ecco questa torretta rivestita in (vera) foglia d’oro, sentinella e vedetta lombarda verso la Bassa, verso le pianure delle campagne napoleoniche che portarono alla Cispadana; ecco altri grandi edifici rivestiti in aluminium foam, schiumona ferrosa che pare una über-pietra pomice per piedoni callosi di giganti; e poi però anche aggraziate modeste architetture di ringhiera milanesi, e depositi e uffici e tinelli e termosifoni di ghisa: e la moda, e gli abitucci, son naturalmente banditi. E poi, un torrione, bianco, con ascensore esterno inquietante.

Nel frattempo i concorrenti, pubblici e privati, che devono fare? In sfortunata contemporanea, apre l’Armani/Silos, con gran dispendio archivistico e vetrinistico e utilizzo di archistar decotte (Andō) ed esposizioni con musichetta da ascensore di sottofondo di intere primavere- estati e autunni-inverni, e tutti gli accessori, e il risultato finale che sembra di essere alla Rinascente di Brescia.

Confronti impossibili: un cinemino all’ultimo piano con poltroncine da regista e paretine traslucide con un’estetica molto anni Ottanta da Armani Hotel, con legni scuri e greige e “tè nel deserto” con protagonisti sfoderati by Armani; filmino autocelebrativo su sfilate che paiono da un’idea di Stefano Accorsi, un altro filmino di sciure acchittate che corrono in una Cremona deserta e piena di incomunicabilità coi vestiti metafisici della Casa. E al piano terra, ecco il bookshop con tanti ricordini targati Giorgio Armani da portare a casa.


Estratto da Michele Masneri, Dinastie. Da Prada ai Ferragnez, ritratti della vera nobiltà italiana. Quella senza blasone, pp. 182, euro 17,00, in libreria per Rizzoli dal 13 settembre 2022.  

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