I social funzionano come un mercato, anche se è difficile pensare che siano stati creati per questo. Sembra più che altro una loro naturale evoluzione: nel tempo hanno assunto la forma del mercato, come mossi da un’inevitabilità.

Domanda, offerta e prezzo

Nei social oggi osserviamo un meccanismo di domanda, offerta e prezzo. La domanda siamo noi che andiamo su Twitter, per esempio, solitamente alla ricerca di una distrazione, di uno spunto. Non sappiamo neanche bene di cosa, in realtà, ma ci andiamo, e se ci andiamo evidentemente è perché pensiamo di trovare qualcosa. L’offerta siamo sempre noi, ma nel ruolo opposto, cioè di produttori di contenuto con i nostri tweet e i nostri commenti, con la nostra, per l’appunto, attività produttiva. Il prezzo sono i like e i retweet, le indicazioni numeriche, le misure che mostrano come sta andando il contenuto che produciamo, e se il contenuto viene apprezzato e preso in considerazione e fatto circolare. Ogni tweet può essere visto come un titolo o un bene la cui valutazione di mercato è data dai like e dai retweet accumulati. Ma anche ogni utente/produttore può essere visto come un titolo o un bene la cui valutazione di mercato è data dal numero di follower. Esiste persino un’idea di liquidità in questo mercato: ci sono tweet che si muovono più rapidamente di altri, vengono condivisi prontamente, viaggiano rapidi come un contagio.

Quantificare un risultato

Il complesso dei numeri presenti sui social, dai like ai follower ma anche ai numeri di commenti, ricordano gli indicatori che misurano una prestazione sul mercato. In fondo quantificano un risultato: ci orientano, ci fanno capire come siamo messi. Naturalmente possiamo pensare che per noi tutto questo non abbia importanza, possiamo pensare che i social per noi siano altro, che non ci interessi ottenere certi numeri, certi risultati. E in effetti molti di noi la pensano così, o sono convinti di pensarla così. Ma è un pensiero individuale, che nasce da una piccola spinta rivoluzionaria interiore, da un fastidio dello spirito. Non è il pensiero dominante che anima le dinamiche del sistema.

E senza dubbio anche i più distaccati di noi sono contenti quando il tweet che hanno appena scritto riceve molti apprezzamenti, o addirittura diventa virale. Tranne nel caso in cui ciò accada perché si è scatenata contro di noi una “tempesta social”, magari perché abbiamo scritto qualcosa che ci copre di ridicolo o che attira una rabbia diffusa. Ma anche in questo caso si tratta di un fenomeno di mercato. Ricorda la vendita allo scoperto, cioè quando gli operatori finanziari scommettono non a favore, ma contro un titolo. Una parte del mercato (nel caso dei social un insieme cospicuo di altri utenti) scommette contro di noi e vuole affossarci, citando il nostro tweet per colpirci oppure facendo circolare uno screenshot, di modo che il contenuto incriminato non possa più essere cancellato e ci perseguiti per sempre.

Una nota a margine: i social come Twitter, Facebook e Instagram prevedono sì la possibilità di dire “like”, “mi piace”, ma non quella di dire “non mi piace”. Non esiste il pulsante “odio” (che esiste per esempio su YouTube, il pollice verso). Non è una scelta casuale, il fatto che non esista. Le aziende come Facebook investono molto tempo e ricerca per capire quali pulsanti e reazioni inserire, e perché. Ma nonostante su certi social non ci sia il pulsante della disapprovazione, gli utenti trovano il modo di esprimere lo scontento attraverso appunto il fenomeno della “tempesta social”. Disapprovano coalizzandosi, ossia facendo numero contro qualcosa.

I social network sono nati come meccanismi di condivisione, come spazio dove coltivare una propria rete di contatti, il network appunto. Sono nati come strumento che ha aspirazioni primarie di tipo qualitativo, ossia non numerico: l’interazione, la partecipazione. In fretta si sono però mossi verso l’aspirazione quantitativa, cioè hanno messo al centro la misurabilità dei risultati (quanti like, quanti follower). Che sia giusto o sbagliato non è fondamentale stabilirlo qui. Però è difficile negare questa evoluzione.

Gerarchie numeriche

Il mercato, inteso come modello di funzionamento e di rappresentazione di un’interazione fra oggetti e soggetti, ha senza dubbio avuto successo nella storia umana, e fra le ragioni di questo successo c’è il fatto che mette al centro la misurabilità dei risultati. I numeri. Non esiste mercato senza prezzo, senza misurazione. Il denaro aiuta, in questo senso, dando l’illusione di una misurabilità perfetta, impersonale: qualsiasi cosa (si arriva a pensare) può avere un prezzo. A ogni oggetto associamo il suo valore di mercato. Preciso, al centesimo. Ma anche la conta dei like ricevuti da un tweet, pur non essendo denaro, è molto precisa. Dà la possibilità di creare una scala di valori che richiama quella commerciale. Un’illusione di oggettività e distacco.

L’idea che sia possibile affiancare un numero (una misura) a una situazione, rendendola più leggibile e confrontabile con altre, è sicuramente un’idea che ha presa sull’umanità, oggi più che mai. Questo non perché il numero o la misura rappresentino una necessità scientifica o permettano una spiegazione più razionale dei fenomeni. Anche se, superficialmente, si ha l’impressione che la misurabilità abbia qualcosa di razionale. Per il solo fatto di parlare di numeri, avvertiamo una sensazione di ragionevolezza. Sentiamo di poter controllare un fenomeno. Pensate a quando si dice «Può anche non piacerti, ma quel prodotto alla fine vende molto, è un prodotto che fa soldi». Una frase in grado di chiudere un discorso, di zittire, perché oggi esiste anche una reticenza fortissima, se si tratta di andare contro l’evidenza di un numero commerciale, di qualcosa che “fa soldi”. Eppure la descrizione di un fenomeno, la sua comprensione anche – volendo – scientifica, di rado passa attraverso l’apposizione di un’etichetta che esprime una semplice misurazione.

In realtà il numero, nel caso dei social e di fenomeni equivalenti, rappresenta il desiderio piuttosto universale di mettere le cose in ordine crescente o decrescente, di stabilire una gerarchia di importanza. Questo desiderio – la gerarchia – ha però qualcosa di ambiguo. La parola stessa, gerarchia, mette un po’ di agitazione. Tu hai cento follower, lei ne ha un milione, la differenza fra voi due, descritta in questo modo, mi risulta immediatamente comprensibile, la scala di importanza è subito costruibile. Perciò mi allineo e decido che mi sta bene. Come potrei controbattere? Allo stesso modo, possiamo giudicare “il successo” delle persone in base al reddito. Quest’ultima pratica – misurare il successo parlando dei soldi guadagnati – attira più facilmente l’indignazione, anche se oggi è sempre più difficile trovare persone realmente capaci di prendersela, per esempio, con i ricchi (e questo è solo in apparenza un altro discorso).

Se si parla di numeri social, essendo tutto un gioco, un passatempo, è meno scontato attirare un certo tipo di indignazione. Ma l’orientamento ai risultati, alla misurabilità, non è molto diverso sui social rispetto a quello che osserviamo quando si parla di redditi, di patrimoni, di successo e di mercati. In fondo, la misurabilità immediata è l’anima del capitalismo. Una delle sue anime. E funziona bene, non perché “il capitalismo vince sempre”, ma perché la misurabilità ha qualcosa di agile, di scorrevole, di immediato, di visuale, quasi. Il numero appare davanti a noi e pensiamo subito che proprio non lo si può ignorare. Pensiamo che forse, in fondo, il numero ha ragione. Abbiamo paura di contraddirlo, di contraddire il numero, sì, perché come si fa a contraddire qualcosa che ti sta davanti nella più completa visibilità? Il numero è nudo e spavaldo. In questo senso, il numero è il contrario dell’immaginazione. Non suggerisce di fare ricerca, non suggerisce di perdere tempo col pensiero. Il numero nudo diventa dispotico e se necessario anche antiscientifico. Ho usato i social come esempio, perché sono vicini a tutti noi, ma la trappola della misurabilità, dell’orientamento ai soli risultati, della creazione di gerarchie numeriche, è riscontrabile in molti ambiti.

Oltre i numeri

Una volta in un libro ho scritto che la verità del desiderio non si può fotografare, e se anche si potesse, sarebbe impubblicabile. Esistono fenomeni sfuggenti, fenomeni che in qualche modo conosciamo – di cui avvertiamo l’esistenza, almeno – ma che non riusciamo a catturare. E qualora li catturassimo, sarebbe molto difficile mostrarli al mondo, per varie ragioni. Estetiche, morali, spirituali, intime, di complessità. Non vale solo per il desiderio. Volendo, può valere per qualsiasi cosa, anche per quello che apparentemente si lascia descrivere con facilità, si lascia fotografare. Anche per quello che sembra mostrarsi a noi interamente. Perché in tal caso dovremmo chiederci: come mai si mostra a noi interamente? Cosa si nasconde dietro questa sfrontatezza?

Più o meno qualsiasi fenomeno richiede uno sforzo per essere davvero compreso. Non basta, di norma, trovare un numero semplice che possa rappresentarlo. Lo sforzo richiesto è anche uno sforzo di immaginazione: andare oltre quello che vediamo, oltre il numero immediatamente presente e osservabile, per capire cosa può esserci di “ulteriore”. Si dice: non tutto ciò che è importante è misurabile, non tutto ciò che è misurabile è importante. Oggi siamo molto stanchi, non serve spiegare il perché, e quando siamo molto stanchi l’immaginazione soffre. Per questo, forse, la trappola della misurabilità prevale più che mai. Ma immaginare significa anche darsi la possibilità di esprimere un giudizio indipendente e rivoluzionario sulle cose. Significa vivere all’interno di questa possibilità.

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