«Chiamiamolo Morgana!». Sono queste le parole con cui tutto ha avuto inizio, quattro anni fa. Cercavamo un nome che fosse una casa per le portatrici di scomodità sociale e fulmini che volevamo raccontare nel nostro podcast. Così, quando lei è esplosa ridendo in questo nome proprio – che pretende e contiene un riconoscimento di soggettività e non di funzionalità – ho pensato: «Ma certo. Le nebbie di Avalon, mica mi freghi. Sono cresciuta a sacerdotesse, druidi e Marion Zimmer Bradley. So tutto».

Terra di mezzo

Morgana era perfetta, strega o fata a seconda dal punto di vista con cui decidi di guardarla e così, con gran leggerezza, abbiamo saltellato dalla Dea Madre al gioco dei regni di George R. R. Martin, finché lei mi ha detto «quando ero a Lot ho organizzato la mia morte. È stato molto bello».

Quella è stata la prima volta in cui ho capito che seguire Michela era come provare a rincorrere il Bianconiglio di Alice nel paese delle meraviglie.

Per chi non lo sapesse, e io non lo sapevo, Lot era (ed è ancora) una comunità online di gioco di ruolo con un’ambientazione medieval-fantasy che attingeva a piene mani nell’immaginario tolkeniano. Una delle prime comunità, in realtà, dunque niente avatar pazzeschi con cui creare proiezioni di corpi desiderati, e solo le tue parole a progettare mondi dentro un sistema molto complesso di regole.

Michela, dal 2000 al 2007, è stata la regina di Lot, anzi l’elfa. Giocava duro: per muoversi tra folletti, gnomi, angeli, demoni, hobbit, fate e compagnia bella aveva imparato il Quenya e il Sindarin, le due varianti dell’elfico codificate da Tolkien stesso (ogni tanto mi dice cose nella lingua della Terra di Mezzo, e garantisco che fa parecchia impressione).

A Lot potevi morire e risorgere, ma lei aveva scelto di non fare mai un resurgo. Se il suo personaggio moriva, ne creava semplicemente uno nuovo, con anima e caratteristiche volutamente opposte a quello precedente. Giocava prendendosi un rischio emotivo che gli altri non avevano né volevano (questa cosa, traslata nella realtà, Michela non ha mai smesso di farla).  

All’epoca il regno di Lot era composto da 40mila insospettabili nerd che ogni giorno, e soprattutto ogni notte, si connettevano per mettere in scena incantesimi, battaglie, seduzioni e strategie di potere. Più eri bravo a raccontare, più le persone si fermavano a leggere i gesti che narravi. Potevi fare carriera nel gioco, ma il talento non bastava: dovevi affinare, oltre alla scrittura, disciplina e doti politiche e sociali, perché per muoverti all’interno di una comunità la visione di ciò che accadeva intorno a te era fondamentale.

Michela ha imparato a raccontare storie proprio lì, dove le parole plasmavano universi. Ovviamente, dato che nessuno può mettere Baby in un angolo, in qualche anno è diventata il capoclan degli elfi aggiudicandosi il titolo di Heru – Re in elfico –, cambiato da lei prontamente in Herinya, regina, inventandosi dunque il femminile dove non era previsto. Già che c’era, mentre affinava tattiche e guidava comunità, programmava anche codici e piattaforme per il sito del clan, creava bacheche, allestiva il portale, perché era (ed è) una supernerd.

A un certo punto, ha deciso però di uccidere il suo personaggio più famoso, Grienne, perché le sue notti erano certamente migliori dei suoi giorni, ma lei non si ritrovava più. Ancora adesso, a Lot, si narra di quell’uscita di scena spettacolare e si piange il nome celtico con cui Michela provocava sconquassi e magie.

Autodefinirsi

I nostri nomi sono portatori di magia, autodefinirsi è ancora l’incantesimo più complicato che ci sia, per questo il Bianconiglio Michela mi ha raccontato che la cultura celtica presupponeva un nome pubblico e uno privato per le persone. Quello pubblico lo poteva usare chiunque, dunque conteneva anche un’eventuale proiezione al pericolo: possono pronunciarti anche coloro che non ti amano. Quello privato, poiché si riteneva che contenesse l’essenza della persona e dunque il suo vero spirito, veniva usato solo dai familiari, cioè da chi in teoria non avrebbe mai esercitato male intenzioni nei confronti di chi portava quel nome. Per cui: potete insultare il mio nome pubblico quanto volete, tanto io non sono lì, mentre le persone che veramente mi amano possono pronunciare il mio vero nome, e io non devo temerlo.

La dimensione privata del tuo nome ti ripara, e ti protegge. Grienne non ripara Michela da molti attacchi che, in questi anni, mirano al suo corpo per provare a silenziare le sue parole. E io, quando accade, le regalo scarpe. Col tacco alto, ballerine, comunque sempre rosse (puoi togliere una ragazza da Oz, ma non puoi togliere Oz dalla ragazza).

Scarpe rosse

Lo faccio da quando ho letto un’intervista in cui Greta Gerwig ha raccontato di scarpe che l’hanno fatta camminare verso ciò che voleva.

Aveva appena saputo di un nuovo adattamento da Piccole Donne, e si era proposta come regista alla major che avrebbe prodotto il film. Durante la riunione con i capi aveva mostrato un coraggio da leonessa e una determinazione che solitamente non le apparteneva, ma appena uscita da quella stanza le si erano arrampicati addosso dubbi e paure.

Nei giorni successivi, aveva chiesto consiglio a due sue amiche e colleghe – Miranda July e Rebecca Miller – per confrontarsi sulle loro esperienze alla regia. Entrambe, all’insaputa dell’altra, le avevano fatto lo stesso regalo: un paio di scarpe che non indossavano più e che credevano potessero stare molto bene a Greta.

Gerwig ci ha visto qualcosa di simbolico, come se le stessero travasando la loro forza. La paura le ha dato tregua e lei ha marciato con le sue nuove scarpe verso quella che è diventata la mia versione preferita di Piccole Donne.

In questi mesi di scarpe rosse e scrittura di Morgana – L’uomo ricco sono io, Michela ogni tanto spariva. Dovevamo consegnare, discutere Nadia Comăneci, capire come raccontare Asia Argento, e lei semplicemente si dissolveva. Per ripescarla, bastava entrare in contatto telepatico con i BTS. Come per Lot, ignoravo l’esistenza di queste sette creature vestite con i colori dei mini pony che smuovono qualcosa come cento milioni di fan ogni volta che si esibiscono online. Eppure, ora li chiamo per nome, come se fossero miei amici. Non mi piacciono, non nutro alcuna fascinazione per questi ragazzi che mi fanno pensare a delle caramelle, eppure Michela vive letteralmente con il loro fuso orario e mi manda centinaia di video in cui mangiano sushi o si rotolano nel letto dicendo cose per me incomprensibili.

Per lei invece è tutto chiarissimo: sta ovviamente studiando da autodidatta il coreano, ma una che a 25 anni ha imparato l’elfico senza poter andare nella Terra di mezzo, non si spaventa certo davanti a una lingua con venti vocali tra semplici, iotizzate e dittonghi.

Per lei non esistono passioni, solo ossessioni.

Così la mia iniziale riluttanza si è poco a poco smussata perché, come spesso accade con Michela, lei ti fa vedere quello che nemmeno immagini. Dunque ho scoperto per esempio che le caramelle rappresentano lo 0,5 per cento del Pil della Corea, e il presidente Moon Jae-in ha chiesto loro di tenere il discorso all’assemblea delle Nazioni Unite.

Michela e io siamo vasi comunicanti, ci guidiamo in mondi in cui non saremmo mai finite da sole. Con delle scarpe rosse ai piedi.

Ps: per studiare meglio i meccanismi di Lot ho chiesto aiuto a un Custos Mortis, che mi ha sussurrato le vite elfiche di Michela.

Michela Murgia e Chiara Tagliaferri sono autrici del podcast Morgana, realizzato per la piattaforma Storielibere.fm, da cui è stato tratto il libro: Morgana – L’uomo ricco sono io, appena pubblicato per Mondadori.

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