Quante volte abbiamo incrociato un articolo online che ci sarebbe piaciuto leggere, se non fosse stato riservato agli abbonati? In molti casi, il cosiddetto paywall si rivela un muro insormontabile per il lettore. Abbonarsi a una rivista o a un quotidiano online, d’altra parte, non è qualcosa che si fa a cuor leggero: è un impegno economico costante (soprattutto dopo essere stati abituati per decenni alla gratuità), che richiede una scelta precisa e che soprattutto non si sposa con il mondo di internet, in cui l’informazione arriva dalle direzioni più diverse. Perché dovrei abbonarmi a un solo quotidiano se ogni giorno entro in contatto con contenuti interessanti pubblicati da svariate testate?

E infatti, secondo uno studio della rivista specializzata Digiday, solo il 5 per cento dei lettori complessivi di quotidiani online è disposto ad abbonarsi a una rivista. Come si fa a “monetizzare” anche il restante 95 per cento? Dal punto di vista teorico, la soluzione più volte proposta (ma raramente perseguita con convinzione) è quella dei micropagamenti, che danno al lettore la possibilità di acquistare un singolo articolo al prezzo di 20, 40 o 50 centesimi, a seconda del valore attribuito al contenuto che si sta vendendo.

Micropagamenti

Un’opzione che ovviamente va ad aggiungersi a quella degli abbonamenti e con la quale non sembra entrare in conflitto, visto che per un lettore affezionato la formula dell’abbonamento è comunque più conveniente. I micropagamenti consentono quindi di rivolgersi ai lettori occasionali e di guadagnare molto di più delle briciole generate dalla pubblicità online, che secondo alcune stime porta tra i 7 e i 15 euro ogni mille lettori.

Attraverso l’acquisto di singoli articoli, sarebbe possibile generare ricavi superiori anche solo con poche decine di lettori, contribuendo ad alleviare gli editori dalla necessità di generare enormi quantità di click – spesso tramite articoli scandalistici o di gossip – e incentivandoli invece a puntare sulla qualità.

Eppure, nonostante le apparenti potenzialità, fino a oggi pochissime testate hanno implementato i micropagamenti. Non solo: la stessa modalità è stata abbandonata anche dalla più nota piattaforma che ha tentato la strada dello “Spotify delle news”: l’olandese Blendle.

Nata nel 2013, Blendle è una piattaforma sulla quale sono ospitate centinaia di riviste, leggibili tramite un classico abbonamento mensile o, fino a poco tempo, acquistando i singoli articoli. «Abbiamo 60mila utenti nei Paesi Bassi e centinaia di migliaia di utenti che comprano i singoli articoli, ma devo essere onesto: non stiamo guadagnando nulla», ha spiegato il fondatore Alexander Klöpping a una testata locale. Blendle – che nel luglio 2020 è stata acquistata dalla rivale Cafeyn – ha così deciso di puntare solo sugli abbonamenti, nella speranza di ricavare più soldi dai singoli utenti.

Questa non è Netflix

La stessa scelta è stata fatta da un colosso come Apple, che attraverso la sua piattaforma News+ offre, nei paesi di lingua inglese, accesso illimitato a 300 siti online e riviste in versione digitale per la classica cifra di 9,9 dollari al mese. Nemmeno Apple è però riuscita nell’impresa di creare uno “Spotify delle news” di successo: un’analisi della circolazione delle singole testate condotta dalla britannica Press Gazette ha mostrato come le riviste con la maggiore diffusione abbiano poco più di diecimila lettori unici.

Insomma, la sensazione è che non siano i micropagamenti a compromettere la sostenibilità di queste piattaforme: sono proprio gli utenti a non essere interessati agli “Spotify delle news”. Per quale ragione? Probabilmente, perché il successo di Spotify o di Netflix è legato al fatto che gli utenti sono abituati a cercare attivamente la musica o le serie tv che gli interessano.

Il percorso è invece inverso per quanto riguarda l’informazione online, da cui i lettori (occasionali) vengono spesso raggiunti quasi casualmente: sui social, su WhatsApp, in seguito a una ricerca su Google e altro ancora.

Gli articoli, a differenza di musica e serie tv, sono qualcosa in cui la maggior parte dei lettori incappa accidentalmente, mentre i lettori più assidui preferiscono abbonarsi alla singola rivista da cui si sentono più rappresentati. È probabilmente per questo che piattaforme come Blendle o Apple News+ non riescono a sfondare.

Non convengono

Ma se i lettori occasionali non sono disposti ad abbonarsi né alle singole riviste, né alle piattaforme di news, non è proprio questa un’ulteriore ragione per puntare sui micropagamenti, implementandoli direttamente all’interno dei singoli articoli (e consentendo di pagare nel modo più fluido possibile)? E allora perché pochissime testate li hanno sperimentati?

L’unico esempio degno di nota sembra infatti essere quello del giornale locale canadese Winnipeg Press, che – stando agli ultimi dati divulgati – genera circa 100mila dollari l’anno grazie all’acquisto di singoli articoli, uno strumento che ha comunque soprattutto la funzione di attirare futuri abbonati: «Il nostro obiettivo è far crescere il numero di sottoscrizioni online, sfruttando i micropagamenti come una porta d’ingresso», ha spiegato l’editore Bob Cox parlando con Nieman Lab, la rivista della fondazione .

Una strategia che, letta tra le righe, spiega anche perché i micropagamenti non siano quasi mai stati seriamente sperimentati dagli editori. Come ha spiegato il consulente editoriale Valerio Bassan parlando con Il Post, «per gli editori è molto più remunerativo un abbonato rispetto a chi acquista un singolo articolo. Il calcolo è presto fatto: per rimpiazzare un abbonamento da 90 euro all’anno servono 450 micropagamenti da 20 centesimi ciascuno. (...) Se l’obiettivo dell’editore diventa generare 450 transazioni, allora dovrà moltiplicare gli investimenti di acquisizione dei singoli lettori paganti: questo potrebbe portare i giornali a perseguire dinamiche di acquisizione “mass market” simili a quelle della pubblicità».

Axate

In poche parole, non solo gli editori temono che i micropagamenti possano cannibalizzare i ben più remunerativi e regolari abbonamenti (forse sbagliando, visto che l’obiettivo sarebbe di monetizzare il pubblico occasionale), ma il continuo investimento necessario ad attirare lettori rischia di essere troppo alto.

Eppure, alcune start up continuano a crederci: la britannica Axate ha introdotto uno strumento che si differenzia nettamente da tutti gli altri. Non si tratta infatti di una piattaforma su cui approdano le riviste, ma di un plug in che i siti possono integrare. Nel momento in cui si clicca su un articolo a pagamento, si apre una finestrella laterale tramite la quale, previa registrazione, è possibile pagare per il singolo contenuto. Idealmente, questo sistema – che al momento conta poche decine di migliaia di utenti – permette di usare un solo account su tutte le riviste, semplificando molto il processo di pagamento.

Donazioni

Tra i due estremi dell’abbonamento annuale e del micropagamento singolo, ci sono però altre alternative potenzialmente valide. C’è chi, come Trevor Kaufman di Piano (società che fornisce tecnologia per la gestione degli abbonamenti), sostiene la necessità di offrire abbonamenti che durano solo 30 giorni senza rinnovo automatico, offrendo «un modo istantaneo e senza impegno di supportare una testata».

C’è poi il caso straordinario del Guardian, che contro ogni apparente logica commerciale ha deciso di mantenere il sito leggibile a tutti, chiedendo ai lettori un’offerta volontaria. Uno strumento che ha generato nel 2021 quasi 500mila singole donazioni e 580mila donazioni ricorrenti, a cui si aggiungono oltre 400mila abbonamenti digitali. Le donazioni, per il Guardian, sono diventate uno degli strumenti principali grazie ai quali i bilanci sono tornati in attivo.

L’esperienza del Guardian – e di altre testate più piccole che, anche in Italia, sfruttano con successo il crowdfunding o la formula freemium (in cui tutti possono leggere il sito, ma gli abbonanti hanno ulteriori vantaggi) – mostra come sia possibile intraprendere strade diverse rispetto alla semplice alternativa tra il tradizionale abbonamento e la sola pubblicità. Prima o poi, sarà il caso di mettere seriamente alla prova anche i micropagamenti.

© Riproduzione riservata