Lo scorso agosto, i riflettori del mondo legato ai Bitcoin si sono improvvisamente accesi sulla Nigeria. Alla base di questa inedita attenzione c’era un sondaggio – rilanciato anche dal fondatore di Twitter e cripto-entusiasta Jack Dorsey – secondo cui il 32 per cento dei nigeriani possiede almeno una piccola quota della più nota tra le criptovalute (la più alta percentuale al mondo).

La notizia è stata ripresa anche dai media internazionali, tra cui la Bbc, destando parecchio scalpore. Peccato che quel dato non fosse veritiero: il sondaggio era infatti stato condotto online dalla società di ricerca Statista senza selezionare un campione rappresentativo della popolazione. In poche parole, era il 32 per cento di chi aveva risposto al sondaggio a utilizzare i Bitcoin, non il 32 per cento dei nigeriani.

Scoperto l’errore, i riflettori si sono altrettanto rapidamente spenti. Ed è un peccato, perché nonostante il dato gonfiato la nazione subsahariana è comunque una delle più sviluppate quando si guarda all’adozione dei Bitcoin, oltre a essere un classico caso di studio delle ragioni che portano alla diffusione delle criptovalute in alcune aree del mondo.

Secondo i dati della piattaforma di trading Paxful, la Nigeria – con 400 milioni di dollari di transazioni in Bitcoin nel 2020 – è seconda solo agli Stati Uniti per volumi di scambio (altre fonti la mettono invece al terzo posto, preceduta anche dalla Russia).

In generale, la società finanziaria di Singapore Triple A stima che, su 300 milioni di utenti di criptovalute nel mondo, 13 si trovino in Nigeria: il 6,31 per cento della popolazione (dato comunque impressionante in un paese in cui solo il 40 per cento della popolazione ha accesso a internet).

Le ragioni del successo 

Quali sono le ragioni di questo successo? Se in buona parte delle economie avanzate la compravendita di Bitcoin è legata quasi esclusivamente alla speculazione, in Nigeria le cose vanno molto diversamente. Il Guardian ha recentemente fatto l’esempio di un importatore di scarpe fabbricate in Cina che opera nella città di Kano, estremo nord della Nigeria: dopo il divieto governativo di accedere a valuta straniera per l’acquisto di merci tessili d’importazione, il commerciante ha seguito il consiglio del fratello e ha iniziato a pagare i fornitori in Bitcoin.

Non si è trattato di un caso isolato. «Ci sono parecchie restrizioni su ciò che si può o non si può fare con la valuta straniera», ha spiegato Nena Nwachikwu, dirigente di Paxful. «I nigeriani vedono le criptovalute come un mezzo per aggirare le restrizioni e anche come uno strumento d’investimento».

A questo aspetto si aggiunge la decisione della banca centrale nigeriana di svalutare del 24 per cento la valuta ufficiale, il naira, nonostante la galoppante inflazione. I Bitcoin, di conseguenza, sono diventati il mezzo (e l’azzardo, visti i continui saliscendi) con cui molti nigeriani sperano di arginare la perdita del potere di acquisto.

E infine c’è l’aspetto politico: nell’ottobre 2020 in Nigeria c’è stata una delle più grandi proteste dell’ultimo decennio. Migliaia di persone sono scese in piazza per protestare contro le violenze della polizia. La brutale repressione che ne è seguita ha causato 50 morti, di cui 12 uccisi a colpi d’arma da fuoco durante le proteste di Lagos del 20 ottobre.

Repressione finanziaria

La repressione è stata però anche finanziaria: molte delle organizzazioni che hanno promosso le manifestazioni hanno subìto il blocco dei conti correnti. Per continuare a raccogliere finanziamenti hanno dovuto chiedere alla popolazione di donare utilizzando Bitcoin.

La Banca centrale nigeriana non è però rimasta a guardare mentre, nel tentativo di contrastare la svalutazione e di aggirare i limiti governativi, le criptovalute si diffondevano come moneta alternativa. Al contrario: già dal 2017 alle banche è stato vietato di supportare le transazioni in criptovalute.

Dopo una prima fase in cui il divieto è stato raramente applicato, negli ultimi mesi sempre più cittadini nigeriani utilizzatori di criptovalute hanno subìto il congelamento dei conti. Inoltre la Nigeria ha seguito l’esempio della Cina, e parecchie altre nazioni, lanciando il eNaira, la moneta digitale ufficiale emessa dalla Banca centrale.

Se la Nigeria ha scelto di contrastare la diffusione dei Bitcoin, altre nazioni hanno invece deciso di abbracciarla. È il caso ormai noto di El Salvador, che durante la prima settimana di settembre ha ufficialmente adottato i Bitcoin come valuta legale.

Una decisione, per ora, unica al mondo, con cui l’autoritario presidente Nayib Bukele spera di alleviare i gravi problemi economici del paese. Le rimesse valgono infatti un quinto del prodotto interno lordo della nazione centroamericana, ma per inviarle è necessario sostenere elevati costi.

Bitcoin City

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I Bitcoin, fatti salvi i problemi di congestione della rete (che in futuro potrebbero venire risolti), consentono invece di inviare soldi ovunque nel mondo pagando commissioni molto inferiori e soprattutto permettono di riceverli anche a chi non possiede un conto in banca (com’è il caso del 70 per cento dei salvadoregni). Il governo stima che gli abitanti di El Salvador saranno in grado di risparmiare ogni anno 400 milioni di dollari in commissioni sulle rimesse.

L’adozione delle criptovalute non è comunque priva di rischi. Lo sa bene proprio la nazione centroamericana: il primo giorno in cui i bitcoin sono diventati valuta legale hanno perso oltre il 10 per cento del valore.

Proprio per questa ragione, ai commercianti è permesso cambiare immediatamente in dollari (l’altra valuta legale del paese) i Bitcoin ricevuti. Chi però non possiede un conto in banca e non ha la possibilità di convertire rapidamente le criptovalute rischia di ritrovarsi col cerino in mano in caso di improvvisi crolli.

Non solo: l’adozione dei Bitcoin non è stata salutata positivamente dagli investitori, che hanno visto in questa misura un segnale di debolezza economica che ha fatto subito crescere il rendimento dei bond con scadenza decennale, passati dall’8,25 al 10 per cento.

Bukele non ha però intenzione di fermarsi, anzi: oltre a fare incetta di criptovalute ogni volta che il valore crolla (come avvenuto nei giorni scorsi), ha da poco annunciato l’emissione di “bitcoin bond” decennali (rendimento fissato a 6,5 per cento) per raccogliere un miliardo di dollari. 

Metà di questi verranno impiegati per acquistare altre criptovalute e l’altra metà per finanziare la nascita di “Bitcoin City”, la futuristica città immaginata dal presidente di El Salvador che sfrutterà l’energia geotermica anche per produrre (indovinate un po’) ulteriori Bitcoin.

Ucraina e Panama

Vista la volatilità della più nota delle criptovalute, si tratta di un colossale azzardo. Ma nonostante i limiti, i rischi e le difficoltà, altre nazioni sembrano intenzionate a seguire almeno in parte l’esempio di El Salvador. L’8 settembre l’Ucraina ha approvato una legge che legalizza le criptovalute – che fino a oggi vivevano in un’area grigia – con l’obiettivo di aprire questo mercato ad affari e investitori.

A differenza di quanto avvenuto in El Salvador, l’Ucraina non ha intenzione di accettare i Bitcoin come valuta legale, ma di rendere il paese – come ha affermato il presidente Volodymyr Zelensky durante la sua visita ufficiale negli Stati Uniti di settembre – «un mercato legale innovativo per i beni digitali».

Una mossa simile è allo studio anche a Panama, dove è stata depositata una proposta di legge che mira a offrire «certezze fiscali, regolamentari e legali per l’uso, la custodia e l’emissione di valute e beni digitali basati su blockchain nella Repubblica di Panama».

Dall’Africa all’America centrale fino all’Europa orientale, i Bitcoin sembrano destinati a diffondersi, in alcuni casi nonostante l’opposizione dei governi e in altri addirittura con il loro diretto sostegno.

Allo stesso tempo, gran parte delle potenze mondiali sta studiando l’emissione di monete di stato digitali. La Cina sta testando ormai da tempo lo yuan elettronico basato su blockchain e dovrebbe eseguire la prima sperimentazione su vasta scala durante le Olimpiadi invernali di Pechino del 2022.

Allo stesso tempo, gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Corea del Sud, la Svezia e molte altre economie stanno studiando o già sperimentando una valuta ufficiale digitale (l’Unione europea è ancora solo nelle fasi preliminari).

Nel complesso, un report PwC stima che siano 60 i governi al lavoro per la creazione di una moneta digitale, l’88 per cento delle quali basate su blockchain (ma non decentralizzate, visto che saranno emesse e controllate dalle banche centrali). Un’ulteriore dimostrazione di come l’innovazione tecnologica lanciata oltre dieci anni fa dall’anonimo Satoshi Nakamoto sia destinata, in un modo o nell’altro, a cambiare per sempre il modo in cui concepiamo il denaro.

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